Il padre infedele
Il padre infedele
Antonio Scurati
9788845274091
Bompiani
€ 17 e-book disponibile € 9,99
Copertina:
Venefici, come sempre, i libri di Scurati, ma non come i manoscritti maneggiati dai monaci del Il nome della rosa di U. Eco. Piuttosto, forse, insidiosi. Le vicende per come ce le racconta, come già ne Il bambino che sognava la fine del mondo (dove si narra come possano le ‘chiacchiere’ creare mostri che non esistono), sembrano a tratti inconsistenti. Qui Glauco Revelli, padre ultraquarantenne, cuoco ambizioso (ma guarda che mestiere cool) che sogna la ‘stella’ di una famosa guida, che si giudica vecchio per fare il padre, deve imparare l’antico mestiere, ma pur sempre nuovo di zecca per ciascuno che vi si appresti per la prima volta, a sue spese. A testimonianza di quanto sia difficile oggi vendere libri: la fascetta che accompagna il libro firmata Walter Siti dice che il libro tratta in primis «(…) di un matrimonio in lotta col disamore…», chiamando a testimone un autore che mai s’è occupato di famiglie, almeno non di quelle ‘tipiche’. La donna della bellissima foto di copertina, donna che apre anche il libro sbottando il suo tormento, confermerebbe che la crisi parte proprio dall’elemento femminile. Le digressioni sulla cucina farebbero pensare che il libro (con ringraziamenti finali a Oscar Farinetti patron di Eataly), girerà molto attorno anche a questo argomento. Scurati, non c’è che dire, parte dall’accumulo e poi a mani nude spiana stradine togliendo un po’ di terra per volta come se stesse lavorando su un giardinetto zen che non ne vuole sapere di venire bene. Però. Il libro c’è: anche se in realtà tratta la paternità e soprattutto, la ‘quarantennità’ di una generazione cui non è stato lasciato futuro, diranno che non ha combattuto per prenderselo, (ma non era disponibilità esclusiva di padri duri e distratti, reucci del ricatto sociale e politici senza scrupolo?) e il passato l’ha lasciato stretto nelle mani di quelli che hanno fatto il ’68 (senza mai dire che il ’68 ha fatto loro, e per fortuna!, che altrimenti non avrebbero saputo che fare). Alla fine del racconto, tra periferie sempre più astratte, parchi striminziti divisi tra tanti cani e pochi bambini (questi qua, lombardi poi, non fanno manco i figli); riflessioni sull’inesistente sessualità nella coppia convivente (i capitoli ‘Demoni’ contano altrettante storie di sesso onirico e reale, quello peggiore che passa anch’esso per il discount di povere donne asiatiche), forse si riesce a raccapezzare cosa lascerà questa generazione tanto bistrattata che ama i suoi rari figli come capolavori unici. Sembra che lascerà molto pensiero scritto, narrativa, tanta analisi di un mondo che va finendo, quella che non hanno avuto il coraggio/ il tempo di fare le generazioni appena precedenti perché più occupate a fare figli, a rimpinguare o spogliare fortune familiari. E l’idea che da questa svendita valoriale ci sia molto da recuperare. Solo la parola lo sa fare. La parola scritta, meglio. Perché leggerlo (senza farlo decantare troppo): contiene molti dei motivi che fanno dell’esistenza un fardello se non la si accetta per quello che è; contiene la noia ‘buffonesca’ del vivere. Testimonia che attraverso l’occhio e la mente è possibile filtrare qualche po’ di poesia, senza andare necessariamente a capo. L’analisi del rapporto padre-figlia a volte ricorda, da lontano, Le parole tra noi leggere – Einaudi di Lalla Romano. Il duro, bellissimo, film di Paolo Virzì, Il capitale umano, ora nei cinema, tratto dall’omonimo thriller di Stephen Amidon (2008, Mondadori) completa una complessa indagine sociale di questi nostri tempi a spasso, stavolta, fra le classi agiate. (Serena Grizi)
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