Il nuovo romanzo di Roberto Riccardi
Riflessioni su un libro da consigliare
“La notte della rabbia” (Roberto Riccardi, Einaudi, pp 320, E. 18,00) ha avuto recensioni interessanti, ma necessariamente – per la brevità che viene richiesta a noi giornalisti – ridotte rispetto ai grandi e vari temi che l’autore pone nel suo complesso sistema filosofico della vita.
Procediamo con ordine.
Esso è definito un “noir”, e siamo d’accordo, ma tale etichetta limita la ricchezza contenuta nelle 320 pagine che non hanno un solo momento di stanchezza e si avviluppano come le onde d’un mare burrascoso una seguendo e sovrapponendosi all’altra fino a infrangersi sullo scoglio formando l’iride meravigliosa che tutto scioglie e placa nella bellezza.
Avrete capito che io non voglio fare una recensione, cioè seguire il filo della trama magari fino a un certo punto e poi lasciare che tutto si compia nelle mani e nella mente del lettore. In quarta di copertina è chiaro un sunto del libro: siamo a Roma nel 1974, anni di piombo; c’è il rapimento, da parte dei terroristi, del prof. Marcelli, astro nascente della politica nazionale. Il colonnello Leone Ascoli, insieme al giudice Tramontano, avvia indagini che subito rivelano la matassa col bandolo nascosto. Inoltre, ci sono tremendi flash-back che riportano ad Auschwitz (per inciso: il colonnello dei Carabinieri Roberto Riccardi ha scritto libri sulla Shoah basandosi su testimoni di prima mano). Capirete: c’è già di che stare nella suspense d’una narrazione a colpi di scena. Ma non andrò oltre nel disvelamento seppur parziale della trama, anche perché essa è uno (e non il solo) degli elementi di cui si compone questo che definirei – senza tema di errore, poiché non uso tale termine se non di rado e a pieno titolo – un vero “capolavoro” nel suo genere. Quante volte mi ha fatto pensare alla tecnica e alla potenza di un Simenon! Con l’aggiunta dell’ironia acuta, soffusa, tragicomica o grottesca di un Manzoni e la tragedia pura inattesa nell’economia d’un E.A. Poe.
Ho detto che non farò una recensione, ma darò delle riflessioni, forse anche slegate, ma che potrebbero essere illuminanti per ogni lettore di questo complesso lavoro che va esaminato su diversi piani di lettura intersecantisi fino alla risoluzione degli avvenimenti.
Per uno dei piani di lettura aprirò – alla fine – un’antologia del settore riguardante la filosofia dell’esistenza da parte dell’autore: ed è la cosa che sostiene, come un basso profondo in un’orchestra immensa, il motivo della narrazione (oggi pochissimi libri, siano racconti che sedicenti romanzi o poesie “con l’andata a capo a casaccio”, posseggono una “poetica”, cioè una visione del mondo alternativa, poiché si basano sul nulla, senza sapere che se ci può essere un filosofo “non scrittore” – come Vico, Hegel, Kant etc – è impossibile che esista uno scrittore “non filosofo”: ecco, oggi manca il secondo esemplare, che io trovo invece meravigliosamente compiuto nelle pagine di Riccardi).
Dunque, mi preme sottolineare queste considerazioni, che in seguito unirò in un discorso compiuto circa le molteplicità espressivo-logiche del libro.
Ho notato che la realtà e la cronaca – fra l’altro descritte con penna maestra, senza fronzoli e senza sovrastrutture – si elevano a metafore della vita. E tutto in uno stile personalissimo, paraipotattico nel senso compiuto del termine, dove il pensiero si fa sangue dei personaggi, netti d’una personalità inconfondibile dai protagonisti alle comparse, la trama si dissoda come una scala a chiocciola dapprima poco illuminata e poi gradualmente sempre più viva man mano che si procede a tortiglione verso l’alto (una sorta di scrittura centripeta il cui perno d’attrazione non è solo nello svolgimento dei fatti, quanto nel pensiero, la cogitazione che – però – non pesa come parte a se stante o come intrusione dell’autore “onnisciente”, ma a guisa di flash che viene da sé, come un assolo improvviso che lega le parti di una sinfonia complessa). È – anzi c’è, e dichiarato – l’orrore della Storia che si ripete, per cui l’avventura o disavventura singola diviene sempre universale. Il tempo preciso, gli anni segnati, divengono ontologici, atemporali, quasi appigli d’una metafora più grande che tutto inghiotte per far emergere la sola schiuma talvolta grigiastra dell’animo in sé.
I dialoghi sono spesso martellanti, ma sempre sospesi nell’alternanza dei pensieri dei vari protagonisti (e tutto appare e non appare: c’è comunque un velo che punge e porta a scoprire oltre, in una lettura che non si può lasciare una volta iniziata) o anche delle figure secondarie. La densità dello stile non toglie nulla alla chiarezza e i flash-back dovrebbe leggerli la famosa Mazzantini per imparare come si elaborano e si dominano senza danneggiare l’attenzione dei lettori (mi riferisco a uno dei peggiori suoi libri: “Venuto al mondo”). E siccome lo stile è impulso biologico inconscio, esso rivela la lucidità dell’autore, il quale non si concede tregue di inutili “respiri descrittivi da carte da parati”: eppure tutto ci appare nella sua verità, con un aggettivo, una pennellata maestra, un silenzio, una particolare interpunzione: siamo al limite delle sperimentazioni, anche se tutto pare procedere nel più canonico dei modi. Se c’è una narrazione asciutta, tutta pensiero e cose, e cose e pensiero e personaggi fusi in un “unicum espressivo”, è questo romanzo.
Ed ora apriamo una piccola riflessione su questa parola.
Oggi tutto si etichetta con tale termine, anche un elenco telefonico. Forse gli scrittori e gli editori non sanno che il romanzo ha le sue regole, la prima delle quaìli è la molteplicità delle trame, dei personaggi che sono liberi ma divengono interdipendenti nell’economia della storia che alla fine deve trovare un punto di coagulo. Non solo, ma gli attori devono avere ognuno una propria lingua, una inconfondibile personalità, mentre i libri di oggi sono solo la narrazione (quando pure c’è) dell’autore, e i personaggi sono marionette in mano a una sola voce. (Ma lasciamo perdere: è tempo sprecato!). Io noto – e i lettori ne tengano conto – che principalmente gli attori, gli antagonisti, le comparse, rappresentano – senza descrizione avulsa dal contesto – la natura, che spesso è antropomorfica, ma talvolta potentemente fisiocentrica. Il tutto, in un lievitare “poetico” (la poesia sta più nelle pagine di Kafka che nelle poesie di Ada Negri, più nelle descrizioni di Aldo Palazzeschi e Federico Tozzi che nell’andare a capo dei Futuristi e dei vati contemporanei che hanno lo spudorato coraggio di formare un verso con la sola congiunzione “e”): lievitare poetico nel senso storico del termine, dal greco, che vuol dire “creazione”, qualcosa che viene nuovo sotto il sole, una visione alternativa della vita, una reinterpretazione della Storia, una fisiognomica dell’uomo: tutte cose che Riccardi, con mano sicura, ci offre in questo gioiello che indico a ognuno: e invito non solo a leggere, ma a meditare e quindi a rileggere.
Detto ciò, e tralasciando una trama che sarebbe disonesto svelare o accennare oltre, passo – dopo una riflessione sulla “poetica” di Riccardi – ad “antologizzare” (con mio commento esplicativo) i passi da florilegio che si dovrebbero trascrivere sul taccuino personale come faceva Orazio quando si accostava agli antichi.
La poetica del libro
È difficile leggere nelle recensioni o nei saggi la “poetica” di un autore trattato. Non va più di moda, diciamo così, e, come non bastasse, si confondono estetica e poetica, mentre sono due cose diametralmente opposte.
L’estetica è la filosofia dell’arte, la scienza del bello. Il termine è stato usato in un testo dello stesso titolo da Baumgarten, e Kant ne tratta nella “Critica della ragion pura”. È vero che gli antichi chiamavano “poetica” (vedi Aristotele) entrambi i concetti, e pure nel ‘700 c’è una sorta di identificazione (vedi Hume), ma una scienza generale dell’arte prende piede in Germania e da qui la separazione dei due concetti (Croce parlerà di “intuizione estetica”); tuttavia dovremmo fermare il passo nello studio di Hegel, alle sue “Lezioni di estetica” e non dimenticare Luigi Pareyson né Giovanni Gentile. Insomma, siamo nel campo della filosofia.
Se si parla di estetica marxista, strutturalistica, crociana etc., non si può dire l’estetica di Foscolo, bensì la poetica di Foscolo, Manzoni, Petrarca etc. Infatti, i due termini sono molto lontani fra loro. La poetica è la risultante del pensiero, dei dettami, della visione del mondo di un artista singolo (al massimo di una scuola molto coesa). Non si tratta dell’indirizzo a priori dell’arte in generale, ma di un’arte singola e a posteriori. Insomma, è l’idea dell’arte, del mondo, del tutto di un singolo artista, quindi è normativa. Le poetiche hanno una storia antica, ma se diamo uno sguardo veloce a quelle recenti, dobbiamo citare “Proust e la memoria”, “Pavese e la poetica del mito”, Pound e l’imaginismo, Rilke e la relatività del termine espressivo etc. Tuttavia (ma posso sbagliarmi), non mi sembra che tale questione sia presa di petto dai recensori odierni (a parte il fatto che le recensioni sono quasi tutte simili per ogni libro e preconfezionate). O è morta anche la critica insieme alla creatività, o molti libri non hanno nessuna “poetica” espressa o fra le righe o in filigrana o in controluce.
Per quanto riguarda Roberto Riccardi, di cui ho letto altre pubblicazioni, posso pensare a una sua dichiarata (ma attraverso l’arte, non il trattato filosofico, appunto) visione del mondo e della storia realistica. Perché non pessimistica? Il pessimismo blocca l’azione, anche se questa è perdente già a priori. Riccardi non si fa illusioni sulla storia e sul mondo, né sugli uomini (e lo vedremo fra poco nell’antologia ragionata), però il suo motto è inseribile nel quadrante antico (non è stato Gramsci il primo a dirlo) “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”. In lui c’è il “soldato” (simbolicamente uso questo termine), che non si arrende, ma si mette allo specchio e si interroga, e sceglie. Inoltre, anche se la speranza del bene e del trionfo della verità è frastagliata dai mille impedimenti che Natura pone al cammino degli uomini di buona volontà, egli non si piange addosso né delega l’ideologia (come faceva Pasolini: e qui sta il tallone d’Achille del pur intelligentissimo autore), e tanto meno si appiglia all’escatologia. Anche se una sorta di religione tutta umana c’è nel suo pensiero: è quella del coraggio, della marcia in avanti pur sapendo che si cammina su un terreno minato. Ma a dare forma unitaria a tale visione delle cose è la sua scrittura, sono i suoi personaggi complessi, combattuti, delineati nell’azione tra il rischio del fallimento contro il male e la coscienza che li interroga e li investe in un gioco estremo.
Lo sappiamo: la verità di un’opera non sta nelle formule, ma nell’economia con cui è scritta. Si tratta di verità artistica, che però – attenti bene – non è astratta, bensì alternativa alla cronaca, anche se parte da un fatto di cronaca come questo libro. Libro d’una purezza espressiva esemplare, ove – come si dice da secoli – non puoi toccare nulla (è celebre la frase attribuita a Leo Spitzer, ma detta già prima di lui dagli antichi in altri modi, ancorché con la stessa sostanza): “Se togli un verso a Dante o una parola a Shakespeare, è come se privi della clava Ercole” (chi legge Schopenhauer trova una simile espressione circa i cattivi e i buoni narratori).
La poetica di Riccardi non contiene solo queste cose da me individuate. C’è il problema della singolarità umana, per cui l’individuo è tale e non interscambiabile perché l’autore ha mille anime (quanti libracci, che pur hanno dieci attori, sono solo la voce piatta dell’autore?). Ho citato Schopenhauer poco fa e devo tornare a lui perché mi fa comodo come autorità assoluta in una riflessione che ora dichiaro per Riccardi: ogni personaggio ha le sue ragioni, e la sua “ragione”, fosse anche il diavolo in persona, perché Riccardi non conduce per mano gli attori, dicendo “questo è buono e questo è cattivo”, ma li registra nella loro autonomia, sicché tu vedi il mondo, quel mondo com’è: uomini, donne, delinquenti, vittime, vincitori e vinti, eroi e demoni hanno la loro sfera di credibilità, senza per questo negare il torto o la ragione, ma l’esistenza pone altre logiche inafferrabili: e questo lo dice chiaramente in qualche lacerto che potrebbe sfuggire a occhi inesperti o frettolosi, ma non a chi ha dimestichezza di circa settant’anni con la lettura critica.
Ma l’autore giudica? È in veste di giudice o di pietoso commiseratore delle sorti umane mosse quasi da un “brutto poter che ascoso a comun danno impera” (per citare Leopardi)? L’autore narra con mano maestra e calibrata. Siamo noi poi a giudicare. La sua “poetica” non concede regali né parzialità, né tanto meno vie risolutive astratte da imbonitore. Ognuno legge; ognuno trae conclusioni. Ma la poetica di Riccardi è una disillusa visione del mondo e degli uomini, però nient’affatto sterile, bensì combattiva, perché se al male non si mettono argini, il fiume nero straripa e vi annegano tutti. Quando mio padre, agricoltore, assisteva alle devastanti grandinate d’agosto che annullavano un anno di fatica e i grappoli venivano flagellati dall’insensatezza crudele della Natura, non stava lì a piangere e a contemplare, ma si metteva subito a dare il solfato di rame, a medicare quello che era rimasto. La sua frase era: “Salvare il salvabile è come salvare tutto in certi casi”.
Salvare il salvabile. Pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. E il tutto reso credibile da una narrazione maestra ed esemplare.
Antologia ragionata
Seguirò, in questa ultima parte, non un percorso legato all’intreccio, alla trama (anzi, farò in modo e maniera di non rivelare alcuna mossa e alcun colpo di scena, dal momento che lo sviluppo del contesto ha una significazione fondamentale nell’economia narrativa del tutto), bensì un florilegio per gustare i punti-chiave, i lacerti belli, significativi, originali, indicatori della “poetica”, nonché qualche sintagma che può assurgere a saggezza di proverbio. Tra parentesi ci sono le mie poche riflessioni, o meglio indicazioni. Il lettore si orienterà secondo i suoi gusti, tenendo sempre presente quanto detto dal sottoscritto nelle pagine antecedenti. Non indicherò i numeri di esse se non in pochi casi, poiché questo scritto forse sarà letto a seconda edizione e potrebbe esserci qualche spostamento editoriale. Non trascrivo il “Prologo”, quasi tematico e bellissimo, che già dimostra la capacità espressiva di Riccardi. Ma questa riflessione vale la pena calibrarla, ad ogni buon fine dell’esistenza: “Non c’è addestramento che tenga di fronte a un mitra puntato all’improvviso, una canna fredda che sbuca da un impermeabile e con una raffica ti toglie al mondo” (molti ritengono che ci si possa mettere in raccoglimento per decidere quale risposta dare di fronte a una situazione che non lascia scampo, come sui terreni di battaglia). “Una domanda, fra le tante, sembrava non avere risposta. In mezzo a un simile inferno, come poteva essere vivo? L’azione era stata perfetta, da killer consumati” (è come il terremoto, che ti prende di sorpresa e ti blocca ogni azione motoria: tale è la nostra struttura anatomica di fronte all’inatteso). Ed ora una delle tante bellissime metafore di cui si compone il libro: “Gli anni rubati erano gioielli sottratti alla cassaforte del tempo”, e qui la riflessione generale che bisogna tenere presente in ogni pagina, in ogni risvolto degli accadimenti esterni e psicologici: “Rosario Greco, l’ultimo martire di una causa insensata. L’ennesima follia della storia, un’onda di morte germogliata nelle viscere del fanatismo umano”. In breve, un trattato filosofico sulla vita e sugli uomini.
Al capitolo segnato col semplice numero “Tre”, c’è la descrizione stupenda della città di Roma affollata nella sua bellezza, con la vita di ogni giorno, per cui, per gli uomini comuni “Roma non è una giungla irta di insidie, ma un ventaglio di vicoli e piazze che sfidano in bellezza la natura. La capitale di una civiltà millenaria, un parco di vita che in qualunque stagione dà i suoi frutti. Il furgone (dei rapitori: n.d.r.) passò spedito in mezzo a tanta ignara umanità”. E ancora: “La metropoli era un ventre sconfinato pronto ad accogliere e nascondere, una teoria di potenziali rifugi per gli artefici del male”. “Il fascino del sangue, difficile spiegarlo e difficile sottrarsene”. “Non ho ancora capito da che parte stai. L’uomo dagli occhi di ghiaccio replicò divertito: – Dall’unica possibile, la mia”: ecco, il grande scrittore non ha bisogno di pagine e pagine per fissare una sua visione del mondo. Né ha necessità di entrare come “autore onnisciente” nella pagina: gli basta sistemare una riflessione naturale in bocca a un singolo: cosa che diviene verità universale.
“Ho visto passare altri grandi ideali, hanno lasciato macerie e un paese spaccato. La storia spazzerà anche voi, è questione di tempo”: pessimismo che taluni definirebbero “storico” ma è vederci chiaro nel ripetersi della macelleria umana nata con l’uomo e solo con la fine dell’umanità destinata a cessare. Ma, ripeto, Riccardi non dà sentenze dal di fuori della narrazione, bensì le insangua e le fa carne dei suoi personaggi. Infatti, quando egli interviene come corollario, scrive: “Per tutte le vittime di quella nuova follia, che perpetuava un orrore di cui il mondo non sembrava mai stanco”.
Leggete con me questa splendida metafora: “La finestra sbatteva, la porta era rimasta aperta e si era creata una corrente. Alla mente di Leone affioravano ricordi lontani, come se quel vento non spirasse dal cielo, ma da un tempo remoto deciso a risucchiarlo. Il vortice lo precipitò nell’inferno personale che non sapeva lasciarsi alle spalle. Il suo passato era un macigno che rischiava di schiacciarlo da un momento all’altro”. E poi, l’ambiguità in un solo rigo: “Con una vita cancellata e un’altra in equilibrio su un filo sottile”.
Riccardi non sentenzia, ma descrive e sottintende, dipinge, porta esempi: e quanto di più efficace di una sorta di parabola che compendia un pensiero? Leggiamo, desumendo la morale che non è mai fredda concettualità, ma vita plasmata dentro il pensiero: “L’edificio del Pantheon, il tempio costruito da Adriano perché ciascun popolo soggetto a Roma potesse venerarvi le sue divinità, era acceso di luce. La marea vociante che affollava la piazza, un miscuglio indistinto di razze e idiomi differenti, a distanza di secoli dava ragione all’imperatore. La convivenza fra diversi era possibile, bastava non reclamare a sé tutto lo spazio disponibile. Una lezione che da secoli trovava aule deserte”: la polemica è chiara, attuale ed eterna. Intelligenti pauca.
“La donna era una stazione dove i treni non sostavano più. La pelle rugosa, il viso segnato di chi dalla sorte non ha avuto regali. Il capitano Fontana la guardò pensando che ognuno di noi è un po’ treno un po’ stazione. Una giostra in movimento, la vita. Parte sfrecciando e nel tempo procede sempre più lenta, fino a che non si ferma”.
La stoltezza umana considera poesia l’andare a capo e prosa (in posizione minore) lo scrivere di seguito; ma ditemi voi se questo non è un pezzo lirico: “Notte che ingoia e nasconde. Che offre riparo ai senzatetto e culla i fortunati avvolti in morbide lenzuola. Notte dai mille occhi sparsi fra i vicoli, dalle stelle innumerevoli e lontane, notte che pure nell’oscurità sa contare i suoi figli…”
Vi invito, seguendo questa edizione che è la prima, a leggervi tutta la pagina 102, dove c’è una potente rievocazione basata su un parallelo psicologico.
Noterete, nella lettura “plurima” perché il libro è polisemantico, anche lacerti vivaci di umorismo rapido, come il seguente: “Un brigadiere refrattario ai libri quanto alle zanzare”.
Ora, se devo proprio raccomandarvi un capitolo (o un segmento di esso) che dia l’idea della drammaticità assoluta che raggiunge Riccardi con la sua penna essenziale, indico “Auschwitz, primavera 1944”, da pagina 138. Carducci diceva che un uomo, il quale può esprimere un concetto con tre parole ma ne usa 5, è uomo di malaffare: mi viene in mente questo detto leggendo la sintesi quasi spietata nella sua bellezza tragica di questo inserto, che usa le tre parole, e non cinque.
Ho trovato una frase di forza dantesca, quasi un’eco del Conte Ugolino: “Un giorno mi spiegherà l’origine del suo dolore”.
“Non sapeva fare i conti con la frustrazione”: si tratta di un giovane, una generazione incapace di aspettare: è l’oggi.
Ma c’è anche, sotteso, presente come forza oscura, un potere inafferrabile. Leggete qui: “Quindi girò sui tacchi e, mentre avanzava a passo veloce, si preparò alla sfuriata che lo attendeva oltre il confine del potere”.
Tante sono le sottolineature a matita, tanto che ho scritto un altro mezzo libro, e non ritrovo i punti in cui avevo segnato gli esempi di natura fisiocentrica e antropocentrica, ma trovo ora, alla fine di pagina 243, una sentenza che potrebbe mettere il punto alle mie considerazioni sparse: “E mentre la musica si diffondeva nella stanza, le sue amiche la strinsero all’unisono. Ridevano e piangevano, sembrava l’immagine del cielo quando il sole e la pioggia arrivano insieme. In quel mescolarsi di gioia e sofferenza c’era il mistero della vita”. Avrete capito che Riccardi non è per i tagli netti fra bene e male, non segue il manicheismo oggi tanto imperante sia in politica che in religione (e nei campi minori come lo sport etc.), L’esistenza è molto più complessa delle segmentazioni umane e fa pensare a Shakespeare quando Amleto dice: “Ci sono più cose fra il cielo e la terra di quante tu possa pensarne…” Ma è doveroso aggiungere una frase lapidaria che dà il senso a tutto l’assurdo di questo pazzo mondo: “Il paradosso dell’esistenza, che i mortali non pensino alla fine”.
Et de hoc satis.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento