Il mito di Orfeo – VII
Le correnti più feconde e innovative della creazione poetica si consacrano alla voyance di ciò che in Francia viene detto “surnaturalisme”, si tuffano nel gorgo dell’invisibile, scelgono il sentiero oscuro e accidentato dell’irrazionale, ignota la destinazione. I poeti camminano sull’orlo del confine tra le due realtà, come acrobati sul filo; brancolano après le déluge, in un mondo irreale e fantastico ma autoconsistente; si misurano con obiettivi immensi, forse impossibili da raggiungere; oscillano tra solipsismo e messianismo; vorrebbero generare un “uomo nuovo” e ricondurre all’armonia (o almeno ad una disarmonia sostenibile) gli atomi scissi e febbrili del Caos. L’alienazione, cioè il modo alienato di vedere le cose, viene imputata ai “mostri” del Logos. Per guarirne bisognerebbe ammaliarli, renderli inoffensivi, abdicare alla falsa clarté della civiltà borghese, ai miti strumentalizzati del benessere diffuso e del progresso illimitato, tuffarsi nell’aperto del Sogno, nella “follia” (ciò che la Ragione chiama follia), nel magma incandescente dove bollono le pulsioni istintuali e primitive dell’Inconscio, per ritrovare la verità universale della vita: oltrepassare la banalità del quotidiano grazie al dono dell’ispirazione, oppure mediante un “lungo immenso e ragionato disordine dei sensi”, oppure per stimoli artificiali. Soli e allucinati, i poeti moderni, perennemente in crisi, caduti negli abissi della privazione, orfani del Cielo, dispersi nel vuoto delle tenebre… ma con sottesa, anche se spesso amaramente rinnegata, la speranza di una luce baluginante all’improvviso dal cuore del Nulla, il “segno” capace di rovesciare lo scacco, di restituire l’armonia perduta e di svelare una volta per tutte l’arcana significazione del grande geroglifico universo. Per quel sentiero incenerito di stelle hanno scelto di addentrarsi, con passi e bagagli diversi, poeti come Novalis, Hölderlin, Hugo, Nerval, Rimbaud, Mallarmé, Trakl, Campana, Rilke, Breton, Artaud… È un sentiero che ha conosciuto il cammino di parecchi “transfughi” attraverso due secoli d’arte, dal Romanticismo alle molte avanguardie del Novecento. Ma, come ben sanno i poeti e i mistici, la discesa agli Inferi (o ai Paradisi) dello spirito non apporta facili compensi: le parole dileguano dinanzi all’ineffabile: ogni parola scritta sul foglio è solo la misura umana cui si costringe, annichilendola, la dovizia dell’illuminazione, una tregua momentanea al pericolo sempre incombente dell’afasia, un compromesso necessario ma non sufficiente; ed è, infine, il segno tangibile dello scacco che bisogna pagare in nome dell’espressione (se non proprio della comunicazione), giacché la migliore poesia possibile, rispetto a certe premesse, sarebbe non altro che il silenzio: l’Assoluto del Nulla, il Nulla dell’Assoluto. La tensione verso l’oltre è una “vuota idealità”, un anelito vano e senza centro che respinge in basso con furia demoniaca colui che lo prova. Non c’è il conforto di una fede, di un “credo” istituzionale, condivisibile anche dal lettore. Il poeta moderno è Orfeo “cantore” per anelito di volontà e Orfeo “poietes” per indole e destino. Vorrebbe potersi identificare con lo sciamano apportatore di salvezza mediante le virtù lenitrici del canto; finisce per essere lo sconfitto che torna dall’Ade senza Euridice, forse con l’orgoglio di qualche conoscenza, di certo con la dolorosa consapevolezza del proprio limite, della propria inessenzialità. E anche se l’utopia salvifica passasse per l’audacia dello “sguardo”, volontariamente, l’esito non sarebbe diverso. D’altra parte la sconfitta attende anche l’Orfeo “agamos”, qualora egli creda davvero di poter redimere il mondo attraverso il suono dei versi, identificando il valore della poesia nella pura musicalità, tentando di riprodurre l’estasi nell’assoluta autonomia dei significanti, ridotti a balbettio magico, a nenia primordiale, a formula d’incantagione, svincolati da qualsiasi significato normativo, liberi da regole sintattiche, ormai completamente intraducibili e inafferrabili. Preferito per la sua consonanza storica e per la sua appropriatezza, la sua universale affinità al problema dell’arte, il mito di Orfeo si delinea non solo come uno dei luoghi più frequentati, ma come l’emblema stesso della condizione moderna. La figura di Orfeo mostra dunque una certa ambivalenza di connotati: incarnazione di una complessità così feconda che è in grado di offrire (e di fatto presta) il suo sostegno contemporaneamente ad opposti versanti della civiltà occidentale. In età antica, l’abbiamo visto, è anche il Mytos che si ribella a se stesso e che inaugura l’avvento del Logos; in età moderna, invece, è soprattutto il Mytos che accorre a salvare l’uomo dall’alienante dominio del Logos tecnicizzato e a ritemprare le ragioni della vita. Prima combatte i mostri generati dal sonno della Ragione; poi quelli generati dalla sua disumanità. Ed è chiaro che il mutamento (o l’eventuale contraddizione) non riguarda tanto Orfeo, quanto bensì la ricezione e l’uso che ne vengono fatti: ogni epoca, del resto, ha un suo modo particolare (a seconda delle evenienze e delle esigenze storiche) di riconoscersi negli oggetti della cultura. (Fine)
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