Il mito di Orfeo – 5
Nel mito “in effetti sono concepibili numerose combinazioni, ognuna delle quali produce una variazione di senso per modificazione interna o esterna, relativa o collegata all’una o all’altra delle unità costitutive”, sostiene Jean Rousset nel suo prezioso studio su Don Giovanni. Con o senza sguardo, fiacco o dominatore, trionfatore o sconfitto, Orfeo ha continuato e continua a rappresentare, ad ogni modo, qualcosa d’imprescindibile, di non riconducibile alla singola interpretazione: il nucleo forte, l’unità costitutiva, l’invariante del mito.
Qualcosa che Orfeo non potrà mai fare a meno di significare; sicché, astratto in chiave metastorica, Orfeo può dirsi “simbolo di ogni differente pensare e sentire l’origine della poesia”. Dovunque il poeta, forte di una purezza disinteressata, ma non irresponsabile, rinunciando alle illusioni accomodanti e alle facili promesse, sappia recedere alla sorgente del proprio canto, laddove è necessario resistere alla terribilità dell’iniziale che baluginando sorge, nella divina saggezza dell’attesa, nella maturità del silenzio; dovunque egli sappia soggiornare nell’oscurità dell’indistinto che non conosce appigli, anelando alla luce del riscatto; dovunque egli sappia lavorare (come scrive Jean Cocteau) “molto in alto e senza rete di soccorso”, tuffandosi nell’alterità più irreducibile alla misura di ciò che si conosce, attraversando universi di vuoto, desolazione, vertigine e silenzio; dovunque si appalesi il profondo valore umano e mondano (pur nell’aspirazione al trascendente) di una poesia incisa nella carne e nel dolore della vita; dovunque la nutriente forza del pensiero accenda e avvalori il fuoco dell’incanto, il misterioso potere del suono e del ritmo; dovunque la poesia sappia porsi come fondamento, di conoscenza e civiltà, come cifra di quel che è proprio dell’uomo, come rivelazione di ciò che all’uomo non compete, di ciò che l’uomo non raggiunge: è là che potrebbe apparire, da un istante all’altro, dal corpo stesso dell’arte che egli rappresenta, l’universale figura di Orfeo; là che la poesia sembrerebbe quasi miracolosamente scaturire dalla sua settemplice lira incatenata alle costellazioni del cielo, fino ad identificarsi con la melodia sacra, la ragione segreta, l’essenza più profonda e irraggiungibile di tutte le cose.
In epoca moderna la figura di Orfeo è più che mai atta a rappresentare le molte zone d’ombra di un uomo che la cultura ufficiale, quella del consenso allo status quo, vorrebbe cinto di apodittiche certezze, oppure fondato sulla certezza dell’incerto, sull’accertamento di una crisi fin troppo nota, estesa a mito, banalizzata a luogo comune, in un dissenso facilmente controllabile perché previsto e anzi tollerato dal sistema, dalle stesse istituzioni del potere: l’ombra di quelle forze istintuali, di quella libido che è necessario reprimere e controllare, acciocché sia ancora possibile una civiltà. Ed è proprio nel nome di Orfeo che Marcuse stigmatizza l’eccedente sacrificio della libido imposto a ogni individuo nella moderna società capitalistica occidentale.
(Continua)
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