Il mito di Orfeo – 3
Orfeo continua di lontano a seminare il proprio richiamo, ad allungare silenziosamente il proprio sguardo come un arcobaleno sopra distese di secoli, ad evocare a sé generazioni di sempre nuovi adepti. Come ad esempio, in Italia, molti dei cosiddetti “petrarchisti dell’Ermetismo”, o come i giovani poeti della scuola neo-orfica milanese degli anni ’70. Ma anche a livello teorico, nel campo della scrittura saggistica, della critica letteraria. È il caso del francese Blanchot, che ne L’espace littéraire, teatro di una riflessione filosofica esercitata “in fieri” sul terreno della letteratura come esperienza, fonda sul mito di Orfeo e sul tema del suo sguardo le basi della propria estetica.
Per Orfeo che scende verso Euridice (il poeta che avvicina la Poesia) l’arte è la potenza grazie a cui si libera l'”essenza della notte”. Euridice è il confine, il limite estremo. “Nascosta sotto un nome che la dissimula e sotto un velo che la copre” è il punto interiore ed essenziale verso cui tende il desiderio dell’artista. Il “proprio” di Orfeo (ciò che lui desidera) è avvicinarsi a questo punto scendendo nelle profondità abissali di se stesso, per riportarne con sé il dono e farlo emergere in superficie, verso il “grande giorno” (Campana direbbe “il più chiaro giorno”) dell’opera, della forma, della consistenza. Ma egli “può tutto, fuorché guardare in faccia questo punto, fuorché guardare il centro della notte”. La legge impone che l’opera possa nascere solo quando l’artista non persegua deliberatamente “l’esperienza smisurata della profondità”, che può rivelarsi solo con la dissimulazione. Orfeo non accetta, non può accettare questa legge: vuole guardare ciò che deve essere dissimulato, e vuole vederlo proprio in quanto invisibile, estraneo ad ogni intimità e proibito alla conoscenza. L’errore di Orfeo sembra allora essere nel desiderio che lo porta a possedere Euridice, mentre il suo solo destino è cantarla. Desiderio e canto necessitano della distanza ed escludono il possesso. Tuttavia Orfeo può essere davvero se stesso solo “perdendo”, se stesso ed Euridice: solo volgendo il capo, perché questo è il solo modo per avvicinarsi al centro della notte ed essere poeta. Guardando Euridice Orfeo obbedisce all’impulso profondo dell’opera, all’impaziente desiderio di giungere alle radici oscure del proprio canto, a costo di smarrirne la voce e l’identità. Questo impulso è l’ispirazione: “L’ispirazione dice la rovina di Orfeo e la certezza della sua rovina, ed essa non promette, in cambio, la riuscita dell’opera”. L’opera tocca con essa la propria fragilità e si scopre inessenziale, perciò le resiste così spesso e così tenacemente. Per venire alla luce, l’opera esige da Orfeo (da ogni poeta) la negazione dell’atto che invece egli “deve” compiere, afferrato per i capelli da un desiderio notturno e originario. Riallacciandosi al discorso di Blanchot, Detienne pone il mito di Orfeo all’origine della scrittura, cioè del bisogno di fondare l’esperienza del mondo attraverso la formalizzazione della parola scritta. Orfeo sembra splendere all’incrocio stesso delle due potenze originarie: voce e scrittura. C’è anzitutto il “canto di Orfeo che viene prima della parola che trascina attorno a sé gli animali del silenzio, le vite più mute. Ma la scrittura è già là, abitata da questa stessa voce; e si avverte un tumulto di libri, di discorsi che si scrivono attorno al canto di Orfeo”. La voce di Orfeo è anteriore alla parola articolata, è la musica prima del verso, il canto senza parola. Il canto di Orfeo sgorga come una magia originaria e si racconta negli effetti che produce prima ancora che nel suo contenuto, e innanzi tutto nel suo valore centripeto, che riunisce attorno alla voce gli esseri animati ed inanimati della terra, del cielo e del mare. Ma è Orfeo, ancora lui, ad aver portato agli uomini la scrittura, dopo averla imparata dalle Muse: egli è pertanto il fondatore della cultura, del sapere enciclopedico, della civiltà. È il canto di Orfeo che “produce la scrittura; si fa libro; si scrive in inni e magie, cosmogonie, discorsi teogonici e grandi composizioni che comprendono sei generazioni di potenze divine”, giacché “la magia dei libri è potente tanto quanto il canto e trionfa sulle deleterie potenze dell’oblio”; anzi: “chi possiede la scrittura e legge Orfeo non conoscerà mai la morte propria degli altri”. Nell’orfismo religioso c’è dunque la scelta consapevole della scrittura come strumento soteriologico di rinascita spirituale. La salvezza si ottiene anche attraverso la letteratura; si conquista attraverso la scrittura che coincide assolutamente con il genere di vita orfico, una scrittura che esprime il trionfo di Orfeo sulla morte e sull’oblio. La “voce scritta” e la “scrittura cantata” di Orfeo aspirano, nella loro complementarità, a rendere il tempo circolare, per sciogliere la stretta dei suoi lacci, collegando Dioniso ad Apollo: ovvero, le dinamiche della dissipazione a quelle della creazione, la tenebra alla luce, la dismisura alla misura, la morte alla rinascita. Infatti, secondo la psicanalisi, “la discesa agli inferi alla ricerca di Euridice è un desiderio di ritorno al seno materno”. Orfeo “sublima la sua libido incestuosa nei canti con cui placa Cerbero, simbolo della resistenza contro l’incesto”: e “questo trionfo fonda a un tempo la sua potenza e la sua colpevolezza”. Lo smembramento ad opera delle Baccanti è infine il “simbolo di una castrazione consentita”. Ma chi è Euridice? È la “sposa di tenebra” di Orfeo: la sua stessa zona d’ombra. Secondo Max Müller i nomi che cominciano in uru in sanscrito e in euru in greco sono quasi sempre nomi mitologici dell’aurora e del crepuscolo. Euridice, come Eurifea (madre di Elio) o Euripile (figlia di Endimione) è uno dei nomi greci dell’aurora. Il nome di Orfeo deriverebbe dal sanscrito ribhus, che significa cantore o poeta: nei Veda il termine sanscrito arbhu è usato come epiteto di Indra e designa il sole. Euridice rappresenta il punto di passaggio tra la luce e l’ombra, tra il giorno e la notte: in entrambi i sensi, sia quindi come crepuscolo, sia come aurora. L’ultima luce del crepuscolo viene uccisa dal morso del serpente, vale a dire: inghiottita dalle fauci della notte. Euridice muore e discende nelle regioni infernali. Orfeo (cioè il sole) la segue, discendendo oltre la linea di confine, all’orizzonte. Laggiù Orfeo riesce a riconquistare Euridice: colei che, in risalita, sarà ormai la sua stessa aurora. Adesso è Euridice che lo segue. Orfeo che si volta a guardarla, nonostante il divieto, è il primo raggio di sole che uccide l’aurora, dissolvendo in piena chiarità la sua soglia umbratile e confusa. Ma perché Orfeo non sa resistere alla tentazione dello sguardo? Perché proprio alle porte del giorno non può rinunciare alla sua zona d’ombra? Quasi colto da folle impazienza d’amore: “subita incautum dementia cepit amantem”, scrive Virgilio nelle Georgiche. Un eccesso d’amore che porta l’amore a perdersi. Ma è un’emergenza ancora più irresistibile di un desiderio erotico. Un ritorno alla luce che fosse obbediente al divieto infero, privo cioè di sguardo notturno, porterebbe sì Orfeo a riavere Euridice viva, in carne ed ossa, ma a perderla per sempre come sposa di tenebra. E uno come Orfeo non può rinunciare alla sua zona d’ombra: ne andrebbe della sua stessa capacità di cantare, di essere poeta: quindi, di essere se stesso. Osando volgere il suo sguardo di conoscenza, cioè di possesso, sul regno oscuro di Thanatos da cui sta emergendo insieme ad Euridice, Orfeo tenta un’impossibile sintesi di opposti: affermare il mistero della notte alla chiarezza del giorno, che ovviamente non può accettarlo. E allora perde Euridice due volte: come ombra e come luce. E tuttavia Orfeo per un istante ha guardato. E ha visto. L’attimo che lo separa dai due regni in cui si inscrive il reale illumina per lui un’altra regione, a metà strada tra l’ombra e la luce, un terzo regno. E allora perché Orfeo guarda indietro? Orfeo guarda indietro perché è un poeta, e non può non obbedire al suo destino, alla sua natura, alla sua missione. Il poeta è un prometeico “ladro di fuoco”, che ferma il lampo della luce e afferra il guizzo della vita, per salvarli dentro l’arca del suo scrigno, dentro la valva delle parole; è “colui che sa, nel luogo stesso della morte, riappropriarsi di un bene e darne ad altri il gioioso possesso, malgrado tutto”. E infatti quello sguardo è il solo che possa, tra due mondi, consegnarci il reale e farlo accedere a un essere di linguaggio che, per parte sua, sarà per sempre preservato da ogni alterazione e da ogni minaccia. La letteratura salva e rende eterno non il reale in sé ma ciò che in esso si dà fuggevolmente, nella grazia dell’istante e al limite della sua perdita, come la sua essenza incorruttibile. È esattamente questa grazia che lo sguardo all’indietro rivela.
(Continua)
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