Il mito di Orfeo – 2
Secondo Charles Segal (che ad Orfeo ha dedicato un ampio e suggestivo saggio) gli elementi fondamentali del mito configurano un triangolo costituito da “arte”, “amore” e “morte”.
Il prodigioso “poeta archetipo”, in grado di smuovere col suo canto l’intera natura, rappresenta la forza dei processi vitali, e il sigillo civile della presenza umana nel cosmo, in lotta contro l’abisso tenebroso della morte; e dunque, rispetto all’imperio di quest’ultima, la sacra alleanza di “arte” e “amore” – dove meglio s’imprime il segno del passaggio dentro il tempo. La versione primordiale del mito “simboleggia la funzione propria della poesia di suscitare la rispondenza simpatetica fra uomo e natura”, ovvero la “contagiosa gioiosità del canto all’unisono con essa”. Il potere orfico può sprigionare, in consonanza cosmica, la melodiosità racchiusa nella natura, il canto degli elementi, la musica delle cose. Ma poi il mito, nella sua evoluzione storica, si vena di una nota di “tragismo”. Orfeo, scrive Rosalma Salina Borello
impara da Euridice morta ad accogliere la morte, ma anche a ritrovarla nelle cose, in tutte le cose che vogliono essere dette nella loro transitorietà.
Il compito del poeta è allora quello di “dire le cose”, celebrandole non loro essere “di passaggio”, nella loro terrestrità, nel raggio in cui balenano per un attimo, sospese sull’abisso: ricomporre e commemorare le macerie del tempo e della storia, attraverso il potere salvifico della parola. Orfeo si fa dunque figura di sincretismo, che – secondo l’interessante proposta della Salina Borello – starebbe ad indicare una “terza via” dello spirito greco, oltre le opzioni bipolari di Apollo e Dioniso.
Il mitico cantore assomma infatti in sé due aspetti contrastanti e complementari della cultura greca: l’aspetto apollineo e quello dionisiaco. Come Apollo è poeta e taumaturgo, in sintonia con la natura, o meglio, con l’anima cosmica che plasma la natura e le sue leggi, senza esserne asservita. È ispiratore delle scienze, perché attinge all’origine di tutte le cose e ai principi di cui esse sono le emanazioni. Non è però, come Apollo, esente dalla conoscenza del dolore e della morte, ma partecipa, come Dioniso, al dramma cosmico.
Come una luce che oltrepassi l’ombra senza negarla, con-tenendola, assorbendola in sé. Infatti
il lato oscuro, tormentato, orgiastico dei misteri di Dioniso viene nell’orfismo trasceso e decantato nel culto apollineo della luce vivificante, della parola profetica, della musica.
Il mito si approfondisce, si universalizza, diventa ambivalente: un fulcro catalizzatore di energie simboliche, rappresentativo dell’umana complessità.
Scrive Segal alla fine del suo libro, quasi compendiando la debordante polivalenza che assume Orfeo per irradiazione, attraverso letture sovrapposte e stratificate, nel tempo e nello spazio:
Il mito di Orfeo ha offerto all’artista creativo la possibilità di percepire la propria arte come una magia capace di sfiorare corde ricettive nella totalità della natura, e di porlo in contatto col fremito della vita allo stato puro, o del puro Essere. Il mito di Orfeo è il mito dell’importanza suprema della missione affidata all’arte. È il mito del coinvolgimento totale dell’arte nell’amore, nella bellezza e nell’ordine e armonia della natura, il tutto sotto il segno costante della morte. È il mito della magia dell’artista, del suo coraggioso, disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell’universo, e della sua speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti noi il suo viaggio.
Sono cinque le connotazioni principali che assume la figura mitica: Orfeo viaggiatore e pioniere, che partecipa alla spedizione degli Argonauti; Orfeo innamorato, che cerca e piange la sua Euridice perduta; Orfeo iniziato, che fonda i culti misterici; Orfeo poeta, che incanta con la sua musica tutto l’universo; Orfeo vittima sacrificale, massacrato dalle Baccanti. Ma forse spetta al “poeta” la palma della maggiore e più suggestiva rappresentatività, in grado cioè di riassumere e racchiudere in sé tutte le altre vesti; sicché Orfeo è “il cantore per eccellenza, il musico e il poeta” (Grimal), che “si rivela in ciascuno degli elementi della sua leggenda come il seduttore a tutti i livelli del cosmo e della psiche: cielo, terra, oceani, inferi, subconscio, coscienza e sovracosciente”, che “dissipa il corruccio e le resistenze, ammalia” (Chevalier). “Forse egli”, conclude Chevalier, “è il simbolo del lottatore che è capace solo di addormentare il male, ma non di distruggerlo, e muore egli stesso, vittima della propria incapacità di superare la propria insufficienza. Su un piano superiore, egli rappresenterebbe il perseguimento di un ideale al quale si sacrifica solo a parole, ma non di fatto. L’ideale trascendente non è mai raggiunto da colui che non ha radicalmente ed effettivamente rinunziato alla propria vanità e alla molteplicità dei desideri (…) Orfeo non riesce a sfuggire alla contraddizione fra aspirazione verso il sublime e verso la banalità, e muore per non aver avuto il coraggio di scegliere”. È, comunque, l’uomo che viola l’interdetto degli déi, che osa guardare l’invisibile, pagando di persona tutta l’imprudenza del suo “gesto folle”. Linforth interpreta Orfeo come figura di artista-mago, Dodds ne fa un “prototipo degli sciamani”. (Continua)
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