Il mito di Orfeo – 1
Come affrontare il mito di Orfeo? Suggerisce Kerényi: “L’unico modo giusto di comportarsi nei confronti della mitologia è lasciar parlare i mitologemi per se stessi e prestar loro semplicemente ascolto”. E Nietzsche: “Il mito vuol esser sentito intuitivamente come un esempio unico di una universalità e di una verità che hanno lo sguardo fisso sull’infinito”. Per intanto, dunque, disponiamoci all’ascolto puro e semplice della fabula, nelle sue essenziali informazioni. Figlio di Apollo e della Musa Calliope, nato alle pendici del monte Rhodope (in Tracia), Orfeo canta e suona così dolcemente che non solo gli uomini, ma anche le belve e persino le piante e le rocce (rotolando) accorrono a udirlo. La sua melodia stregata valica ogni ostacolo, addolcisce ogni cuore, scioglie la ferocia e la tristezza del mondo. Orfeo conduce ogni cosa alla gioia. Al suo canto fiumi arrestano il loro corso per ascoltare, uccelli volteggiano a stormi, pesci guizzano dalle cupe azzurrità del mare. Orfeo cresce in Pieria, il Paese delle Muse olimpiche. Apollo in persona lo ammaestra nell’arte del canto e gli regala la lira di Hermes. La leggenda lo vuole partecipe alla spedizione degli Argonauti: più debole degli altri, egli non rema, ma detta la cadenza, funge da “capovoga”. Inoltre assolve un ruolo di sacerdote, essendo l’unico iniziato ai Misteri: scongiura i pericoli con rituali magici; durante una tempesta calma l’equipaggio e placa i flutti col canto; riesce a trattenere i compagni dalla malìa delle Sirene, superandole in dolcezza. Ama, riamato, la ninfa Euridice. Il giorno stesso delle nozze Euridice è morsa da un serpente velenoso e muore. Dopo averla pianta a lungo, Orfeo tenta di scendere nell’Ade per riaverla con sé. Con la sua arte sublime commuove il traghettatore Caronte. Al suo passaggio le Danaidi, Tantalo e Sisifo possono sospendere per un attimo l’espiazione della condanna. La ruota di Issione si ferma, le Erinni rimangono interdette, piangono le anime che si radunano intorno a Orfeo. Ma questi procede spedito, senza curarsi di ciò che lo circonda, facendosi largo fra le ombre. Giunge infine dinanzi al trono di Ade e Persefone, cui significa il motivo che lo ha spinto fin laggiù. Persefone si lascia commuovere dalla sua struggente melodia e sussurra parole pietose all’orecchio del consorte, la cui testa abbozza un assenso: Orfeo potrà riottenere l’amata, a patto però di non voltarsi a guardarla prima della luce, secondo la legge degli Inferi, dove nessuno sguardo, ma solo la voce è consentita. Intraprende così la strada del ritorno, seguito da Euridice accompagnata da Hermes. A questo punto ci sono due versioni: una attesta che Orfeo riesce a riportare a casa Euridice e a vivere felicemente con lei il resto dei suoi giorni; l’altra che, giunto alla porta dell’Ade e ormai ad un passo dalla luce della salvezza, Orfeo si lascia cogliere dal dubbio e dall’impazienza, non resiste più e si volta a guardare, contravvenendo così al veto degli déi. “Euridice!” egli grida protendendo le braccia, ma le sue mani afferrano non altro che aria fredda mentre la figura velata svanisce, sottratta da Hermes, come inghiottita – e stavolta per sempre – dal silenzio e dall’oscurità. Orfeo tenta invano di inseguirla e di tornare indietro: Caronte non lo lascia più passare. Da quel momento cade un’ombra dionisiaca sulla sua essenza apollinea. Sulla morte di Orfeo si contano diverse varianti. In una è Zeus che lo trafigge col suo fulmine per punirlo di aver educato all’orphikos bios, di aver iniziato ai misteri e all’origine delle cose e degli déi, gli uomini traci presso una caverna alla foce del fiume Stimone. In altri casi viene assalito e dilaniato dalle donne tracie, offese perché dopo aver perduto Euridice egli si astiene dall’amore, oppure dalle Baccanti sul monte Pangeo, pronte a riconoscere in lui l’avversa natura apollinea. La testa, decapitata e inchiodata sulla lira, fluttua per fiumi e per mari continuando miracolosamente a cantare. Smirne, Libetra, Dione o Lesbo: dovunque si ritenga sepolto Orfeo, gli usignoli cantano più dolcemente e più forte che altrove. La sua lira, che nessuno è degno di ereditare, viene posta da Zeus fra le costellazioni. Questa la fabula. Dovremo ora interrogarci sui suoi significati. Quali sfere dell’esperienza umana il mito di Orfeo sia deputato a rappresentare. Di cosa sia emblematico, in termini astratti, a prescindere dalle singole incarnazioni. Cosa infine possa dire e cosa effettivamente abbia detto alla cultura moderna. Orfeo è personaggio di un mito sempre ricorrente all’attenzione della cultura occidentale, prossimo alle questioni tecniche e teoriche del fare creativo, baluginante dal vivo delle riflessioni sul senso dell’arte, in particolare di poesia e musica. Da Platone a Pindaro, Virgilio, Ovidio, Poliziano, Monteverdi, da Lope de Vega a Calderon de la Barca, Lully, Gluck, Listz, da Nerval a George, Mallarmé, Nietzsche, D’Annunzio, Apollinaire, Campana, da Kokoshka a Rilke, Cocteau, Anouilh, Camus, Williams… è praticamente sterminata la schiera degli artisti e dei pensatori che in ogni tempo, sedotti dal fascino di una delle figure più oscure e cariche di simbolismo della mitologia ellenica, hanno lasciato una loro interpretazione o rielaborazione, talora personalissima; oppure orientato le loro opere secondo schemi e modi di pensiero che potremmo definire “orfici”; oppure, più semplicemente, utilizzato l’immagine o il nome di Orfeo quale emblematico supporto ai loro enunciati critici o prodotti artistici. Il cantore tracio diventa, così, ispiratore e quindi testimone di un certo modo di concepire ed esercitare la pratica creativa, giacché – scrive Franco Ferrucci – “è poderosamente e talvolta elaboratamente dialettico. La semplicità gli è sconosciuta, anzi c’è in lui nei riguardi della semplicità una marcata distanza, quasi fosse un patto debilitante”. L’artista “tormentato e insoddisfatto è molto spesso un Orfeo. Chi non ricorda l’ira di Michelangelo contro il Mosè (la cui statua era certamente un autoritratto orfico), e le accorate deplorazioni di Dante sulla difficoltà di descrivere l’oltremondo divino?” Questo tipo di artista smania per una certa grandeur di tono espressivo, che si traduce nella possibilità ultima e mai sopita di accarezzare una visione totale del mondo (Dino Campana, autore dei Canti Orfici, scrive: il “sogno della vita in blocco”), quasi obbediente a una volontà egemonica di conquista, di dominio cosmico sugli elementi. Ed ecco allora il rischio di una possibile caduta “nel turgore e nell’oscurità”, dove solo il genio, eventualmente, può risollevarlo. Come accade in Wagner, che “è un ottimo ritratto di Orfeo, del quale non gli manca neppure una caratteristica – compresa la tendenza malinconica, e compreso il serrato rapporto con la morte”. (Continua)
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