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Il linguaggio del cibo – La carne

Aprile 16
06:38 2012

L’uomo sin dai primordi ha cacciato animali per cibarsi. Questo alimento costituiva, in effetti, un’importante fonte di proteine di cui aveva bisogno per la crescita e la salute del proprio organismo. Grazie alla scoperta del fuoco, l’uomo iniziò a mangiare la carne cotta, quindi più digeribile, più assimilabile a livello proteico e meno laboriosa per la masticazione.

Dal crudo al cotto, la carne nel corso dell’evoluzione dell’umanità è sempre stata un alimento importante, prelibato e anche un indicativo parametro di differenzazione sociale. Le generazioni che ci hanno preceduto consumavano poca carne, sia per le modalità di distribuzione e produzione molto diverse da oggi sia perché la gente non abbiente non poteva permettersi il lusso di mangiare spesso la carne, alimento costoso. Tant’è che il consumo di carne per gli antichi romani fu essenzialmente limitato alla selvaggina e al maiale, che però compariva esclusivamente sulle tavole dei nobili in ricche e scenografiche preparazioni. Solo dopo il declino dell’Impero Romano, con l’avvento delle invasioni dei barbariche, cominciò un uso più diffuso della carne, con allevamenti di animali addomesticati, tra cui ovini e caprini. In ogni caso, l’uso della carne nella gastronomia ha subito momenti alterni, venendo spesso bandita dalle tavole per motivi religiosi, sociali ed anche ideologici. Basti pensare all’epoca medioevale, quando fu introdotta la regola del mangiar di ‘magro’ o come avviene oggi riguardo al vegetarianismo fondato su questioni etiche. Si deve al fatto che le parti ‘nobili’ dell’animale erano riservate alle classi ‘nobili’ della popolazione, che nella cosiddetta cucina “povera” entrò prepotentemente il “Quinto Quarto” destinato a coloro che si accontentavano di mangiare gli scarti dell’animale costituiti dalle interiora. Nella piazza del Vecchio Mattatoio a Testaccio, come ricorda lo studioso Livio Janattoni, vi era un chiosco gestito dalla “regina del quinto quarto”, Oberdana, che preparava piatti tipici romani, come la coda alla vaccinara, trippa alla romana, pajata di vitella, pronti e da gustare in ogni momento. Le interiora venivano cedute a pochissimo prezzo perché erano gli scarti dell’animale. E purtroppo, non esistendo frigoriferi, questi alimenti si deterioravano in brevissimo tempo causando infezioni intestinali a malcapitati che perdevano così la propria vita. L’uso della carne, quindi, presenta modi di gestione e di consumo per ogni popolazione che acquisisce comportamenti gastronomici funzionali alla propria cultura ed al proprio modo di essere. La cucina ebraica rispetta le regole della tradizione giudaica in rapporto all’uso della carne. Nel fare una piacevole ed interessante passeggiata per le vie del ghetto a Roma, si scoprono macellerie che vendono solo carne Kosher (permessa) in osservanza di quelle regole religiose e morali che per l’ebreo osservante coniugano il consumo del cibo con la pace interiore dell’anima. Vi sono specie di animali permessi e specie proibite. Quelle permesse devono essere quadrupedi e ruminanti, avere lo zoccolo spaccato, quindi ovini, caprini e bovini. Vietato il maiale perché non ruminate, così per il cammello che anche se ruminante non ha lo zoccolo spaccato. Mai è consentito mangiare carne cotta nel latte e nemmeno cibarsi di latticini in un pasto a base di carne. Regole ferree ed inderogabili riguardano la macellazione e la preparazione degli animali adatti-regolari, regole simili si ritrovano anche nella cultura musulmana per il rituale della macellazione, che per gli ebrei è la Shechitàh. L’animale da macello viene ucciso con un solo taglio netto di coltello affilatissimo, con un’incisione rapidissima dalla trachea all’esofago, che provoca la morte istantanea e la fuoriuscita completa del sangue. Sia per la tradizione ebraica che per quella musulmana esiste il rituale della ‘purificazione della carne’. Prima di cucinarla occorre passare sulla carne sale ed acqua per eliminare completamente il sangue rimasto. Se per gli ebrei ed i musulmani le regole per il consumo della carne pongono rigidi divieti in un lessico gastronomico accettato e condiviso, i cristiani sono liberi di mangiare animali non “kosher” e sono gli unici che non hanno il divieto alimentare di non mangiare carne suina, soggetti alla sola regola morale e religiosa di astenersi dal mangiar carne il venerdì santo ed il mercoledì delle ceneri. Detto questo, la carne, sia cruda che cotta, costituisce un importante elemento gastronomico che differenzia le diversità culturali per il variegato e poliedrico linguaggio culinario di cui è parte integrante, nella sua preparazione, consumazione, divieti e permissioni. Per questa caratteristica si pone, come cibo, con criteri legati sia a dimensioni economiche e nutrizionali del gesto e sia a valori simbolici e morali di cui questo alimento è culturalmente investito. Grazie a questo percorso sicuramente culturale, per l’esistenza di innumerevoli piatti, questo alimento si configura come elemento di comunicazione di identità nazionali e regionali nel sistema alimentare, così come per i piatti a base di carne della nostra cucina regionale italiana. La famosa costoletta alla milanese, impanata nel pan grattato e zafferano e cotta nel burro, tipica della cucina lombarda; il gran bollito alla bolognese, un mix di carne di maiale, vitello, coda di manzo, gallina, ossa di midollo, testina di vitello, cotechino e vari odori, è un piatto prelibatissimo della cucina bolognese; Firenze trionfa con la sua ‘bistecca alla fiorentina’, rigorosamente di peso non inferiore ai 500g; l’abbacchio a scottadito della cucina ciociara; il ragù napoletano, un rito che ha per protagonista assoluto il tempo, non inteso come tempo di cottura, ma un tempo come lo scorrere lento della memoria comunitaria; gli involtini al sugo con pinoli e uva passita che la cucina pugliese ha ereditato da incursioni culinarie orientali; il galletto alla calabrese; il “porceddu” cotto lentamente allo spiedo dalle mani esperte di cuoche sarde. La carne, come d’altronde altri alimenti, fa parte del lessico del cibo, speciale quando è riservato ad un gruppo ristretto di consumatori ed universale quando questo lessico si veste di una condivisione ed interculturalità. Allora è la morfologia, il modo in cui i prodotti vengono elaborati, a trasformare le unità di base in parole, cioè piatti o vivande, con usi e funzioni diverse, importanti espressioni individuali e collettive.

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Bibliografia essenziale

R. Gaudiano, ‘Il cibo in tavola’, Mercanti editore, 2008

Montanari, ‘Il cibo come cultura’, Laterza editore, 2004

C. Levy-Strauss, ‘Il Crudo ed il Cotto’, Feltrinelli editore, 1997

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