Il giovane Werther – 2
Quest’ultima, probabilmente, avrebbe stimato molto Werther e, forse, chissà, avrebbe affidato proprio a lui il compito di rendere felice la ragazza, ma un infausto destino aveva voluto condurlo al cospetto di Lotte quando ormai era troppo tardi e il futuro della giovane già deciso. La sorte è sentita come profondamente avversa, perché pone dinanzi a lui le donne giuste solo per il piacere di strappargliele inesorabilmente: l’amica della sua gioventù viene portata via dalla morte, la signorina von B. da una società pedante, che, come l’ambasciatore, non riesce ad amare le sue inversioni e Lottchen da una promessa di matrimonio. Le speranze del giovane di non lasciarsi sopraffare dal passato, per avere la possibilità di godere del presente, vengono spazzate via con un colpo di vento nel momento in cui non riesce più a percepire nessun futuro: «Non so bene perché mi alzo né perché mi corico»1. Non solo non potrà mai avere la fanciulla che ama, ma ha perso anche l’ispirazione nel disegno e la sua promettente carriera viene interrotta bruscamente, a causa della malvagità di coloro che non riescono a dimenticare i suoi natali e ad accoglierlo nella buona società, appellandosi fosse anche solo al suo ingegno. Nella difficoltà, la reazione di Werther è quella della resa; non riesce ad accettare il mondo perché non si fa una ragione del fatto che è l’imperfezione ciò che lo contraddistingue. Quando un posto gli sembra ormai avverso lo abbandona, non avvedendosi che utopica è la fuga da se stesso. Percepisce che gli esseri umani non hanno uno scopo per il quale valga la pena di vivere, si affannano a trascinare la loro esistenza, fosse anche solo per un misero giorno in più. «Che i bambini non sappiano il perché di quello che vogliono è un fatto su cui tutti i dotti precettori e maestri concordano; ma che anche gli adulti, come i bambini, vaghino su questa terra brancolando, e come quelli non sappiano da dove vengono né dove vanno, che anche loro non agiscano in funzione di veri obiettivi e si lascino governare con biscotti, dolci e colpi di bacchetta è un fatto cui nessuno vuole credere, mentre a me sembra che si tocchi con mano»2. Prova una sorta di invidia per chi non si pone problemi esistenziali, per chi si accontenta di quello che ha, per chi «quando vede cadere le foglie pensa semplicemente che sta per giungere l’inverno»3. Il suo spirito proteso verso l’infinito, sente al tempo stesso il rifiuto e la necessità del limite. L’altrove diventa presto la sua attesa dimora condannando il suo spirito peregrino a cercare, ancora e poi ancora. Si sente completo solo quando si confonde con gli sterminati spazi dell’universo, ma repentinamente la visione dell’infinito si trasforma nella voragine di una tomba, rivelando che solo la morte avrà la facoltà di legittimare la sua appartenenza all’eterno. Wahleim, il villaggio nel quale decide di stabilirsi, è un fedele testimone del suo stato d’animo; rispecchia il suo essere, si trova su una collina e domina l’intera vallata, così come Werther dal suo sé osserva con distacco l’umanità. Negli altri non tollera le caratteristiche proprie della sua più intima natura; è infastidito dal malumore, lui che non sa che cosa sia la serenità e che si trascina verso una crescente svogliatezza, che gli sarà fatale. Non tollera chi predica la rassegnazione ad un destino inevitabile, lui che si lascia piegare dalla vita e che pensa che la felicità derivi solo dall’illusione. Condanna il fatto che l’umanità, in particolare la gioventù, sprechi quanto di buono gli è concesso, affaccendandosi dietro ad inutili lagnanze, proprio lui che, nella più totale inoperosità, getta alle ortiche la sua vita. Lotte lo esorta a pensare a come tutto dipenda dall’agire di ognuno e a come le situazioni cambino a seconda della predisposizione nell’affrontarle, ma Werther rifiuta di darle ascolto. Si decide ad agire una sola volta: lascia Wahleim per dedicarsi alla sua carriera. Ma nella solitudine, a contatto con la sua vera identità, avverte in modo lacerante il suo infinito disagio e si sente impossibilitato a reagirvi. Si arrende di nuovo, non lotta per la sua carriera, così come non lo aveva fatto per il suo amore. Non si sente padrone di se stesso e dei propri sentimenti, non sa tenersi e non sa tenerli sotto controllo. È cosciente del fatto che non può attribuire la colpa delle sue sofferenze ad altri che a se stesso. Solo lui ha la possibilità di dare un senso alla sua vita; né Lotte, né il conte von C., né l’intendente possono fare niente, lontani dalla sua volontà e dalla sua attiva partecipazione. Werther parla del suicidio come se esso fosse un atto dettato dalla necessità, non lo considera una libera scelta, ma sostiene che solo un grande uomo può portare a termine l’esigenza di mettere fine per sempre alle sue sofferenze. Al contrario per Albert, freddamente convinto che sia più facile morire, piuttosto che sopportare una vita tormentata, il suicidio non rappresenterebbe nient’altro che una forma di debolezza. Werther, prigioniero nel carcere del suo corpo, trova nella morte la liberazione dalla malvagità e dai tormenti della vita. Aveva sentito parlare di una razza di cavalli che quando sono eccessivamente accaldati si aprono una vena per poter respirare meglio: «Vorrei anch’io mordermi una vena così da ottenere eterna libertà»4. Invita Albert a pensare alle cause che possono portare un uomo a togliersi la vita ed indica nella somma dei dolori uno dei motivi che può spingere un uomo ad un simile gesto: più grande è il fardello che si porta sulle spalle, più forte è la volontà di disfarsene. Descrive il suicida come un malato che non ha più energie per poter fronteggiare la sua malattia e al quale nessuno può più dare conforto, in quanto ormai appartenente ad un mondo altro, la cui caratteristica è data da una pesante incomunicabilità. «La natura non trova una via d’uscita [..] e l’uomo deve morire»5. La rinuncia all’esistenza è la conclusione naturale ed inesorabile di un percorso che inizia nel momento in cui si tendono le braccia e si stringe un impalpabile vuoto. La soddisfazione di sé dipende da ciò con cui ci si confronta e che cosa c’é di più pericoloso se non il rapportarsi alla solitudine o, allo stesso modo, all’infinito? (Continua)
________
1 J.W. Goëthe, I dolori del giovane Werther, Firenze, Giunti, 2005, p. 89.
2 Ivi, p. 26.
3 Ivi, p. 31.
4 Ivi, p. 96.
5 Ivi, p. 69.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento