Il giardino dopo l’ultima stanza
Che grande stanza. Che grande specchio alla parete, quanta luce.
Troppa luce, luce impietosa cui nemmeno una ruga può sfuggire. Se contassi le rughe del mio viso e ogni ruga fosse il segno d’un anno di vita, sarei ultracentenario.
Le vene delle mie mani sono una trama di corde blu che sollevano la pelle sottile, quasi trasparente. Una pelle che sembra stia per spezzarsi, secca come una foglia che si sbriciola sul ramo in un giorno assolato d’autunno.
Di fronte allo specchio c’è un grande letto col baldacchino di seta rossa. Vorrei cadervi sopra e chiudere gli occhi e dormire il sonno del giusto, ma le mie gambe mi trascinano verso la porta aperta e lentamente la oltrepasso spinto da un residuo di curiosità che in qualche punto della mente palpita ancora.
Mi trovo in un’altra stanza meno grande della prima, con uno specchio ampio ma non come l’altro, con una luce viva ma non accecante, che non nasconde nulla di me, della mia vecchiezza, ma mi sarebbe difficile contare i segni del tempo sul mio volto e la rete di vene sottopelle. L’aureola dei capelli bianchi risplende come un elmo d’argento sottratto al nemico battuto.
Di fronte allo specchio c’è un grande letto con la spalliera intarsiata di madreperla e un drappo di velluto arancio. Vorrei stendermi e avvolgermi tutto e dimenticarmi, ma i miei passi stenti mi conducono verso la porta accostata e mi trovo in un’altra stanza in tutto simile alle altre, salvo che per le dimensioni ridotte delle pareti e dello specchio. La luce qui è morbida, svela ma non tutto rivela e io posso guardare senza troppo dolore tutte le mie cicatrici. Di fronte allo specchio il letto di mogano intagliato e la coperta gialla di lino m’invita con la sua frescura a stendermi per riposare un poco, almeno un poco, ma il suono dolce che proviene dalla porta socchiusa m’invita a proseguire, mentre un principio di desiderio si riaccende in petto.
Ancora più piccola la stanza e lo specchio, ancora più semplice il letto con la spalliera di ferro battuto e una coperta verde di lana, la luce calda che smussa angoli e spigoli, ma non mi trattengo nemmeno per riprendere fiato e vado inseguendo il suono oltre la porta da cui solo trapela uno spiraglio.
Stanza a misura d’uomo, specchio che mi comprende tutto ma in cui non mi perdo, luce chiara delicata che mi colpisce in pieno ma non mi ferisce, e vado oltre, in cerca del suono che si fa sempre più dolce e vicino, e attraverso le stanze con passo sempre più sicuro, e non mi fermo a guardarmi nello specchio, e non mi tentano i letti sempre più morbidi e colorati, con fresche lenzuola di mussola verde blu indaco e violetto, e la luce si fa sempre più rosa e sfocata, e le porte si aprono solo sfiorandole. Raggiungo finalmente la fonte del suono quando, passata l’ultima porta, mi trovo in un giardino dove l’acqua zampilla in una piccola fontana, e tutto splende nella luce del mattino, e il canto dell’acqua si accompagna alle tante voci della primavera.
E ritrovo la bella stagione della giovinezza nello spazio intoccato della memoria, e non vi sono più stanze infilate l’una nell’altra, né specchi crudeli, né giacigli tentacolari, ma solo questa luce di onice in cui risplendono i colori dell’arcobaleno, l’alito tiepido di una primavera in più rubata alla vita che assaporo con tutto me stesso godendo come del primo amore, come del primo bacio e ancora di più: come del primo sorso di latte succhiato dal capezzolo bruno di mia madre.
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