Il fiore del futuro
Alto livello che avrebbe continuato lo sviluppo raggiunto nella prima parte del secolo scorso e, insieme ma non secondario, avrebbe rappresentato per le gestioni successive un solco sicuro, difficilmente abbandonabile. Tale riferimento non s’è avuto, continuiamo a risentirne. Se chi ha capacità si defila dal compito, si chiama fuori dalla responsabilità, magari per infilarsi negli interstizi pubblici e pompar soldi, torna inevitabile che il ruolo venga occupato dalle categorie inferiori e che i risultati siano scarsi. Per una appendicite meglio un medico che un infermiere, meglio un chirurgo che un generico. Quando uomini intelligenti sono troppo pigri per comunicare il frutto della loro intelligenza, e quando il nucleo della mente di un paese non ha la forza morale di tradurre la conoscenza in azione, conta niente chi gestisca l’amministrazione: il buon governo barcolla. La migliore amministrazione è quella che attiva (naturalmente?) il meglio dell’intelligenza di una collettività. Quando cultura e potere coincidono, la situazione è buona. E con la cultura in regia avremmo evitato la miserella esibizione di provincialismo realizzata col pagare come cantante Califano, che cantante non è stato mai. Buon paroliere, sì. Ma i concerti non li fanno i parolieri, serve saper cantare. Palchi e pauli, allora, per Lucio Battisti, non per Mogol, paroliere ottimo ma che canta come me. Le vecchie glorie, di qualsiasi specialità, non fanno spettacolo, fanno malinconia. Pure Pavarotti, pure Sinatra, quando cantò a Marino. In tempi di difficoltà, quando i denari pubblici dovrebbero spendersi a ragione più che mai veduta, il compenso a Califano (quanto?) è un pedaggio al cattivo gusto, un obolo alla comunicazione monnezzara, quella che fa diventare personaggi Corona e Belen, Malgioglio e Platinette, la Parietti e la Marini. Citandoli, m’auguro non vederli in cartellone per le sagre a venire. L’appunto mi procurerà altro rancore. Ma va mosso, non per personalismo, per un futuro rivisitato. Il paese si è addormentato per una quantità di motivi, dal degrado della vita civile, dal disastro della formazione giovanile, dalla diseguaglianza di cittadinanza, dal sonno della cultura fino alla sostanziale abdicazione comunitaria della sua classe dirigente e dei suoi raggruppamenti paesani. Le ultime due cause, l’appannamento della cultura e il distacco dalla sfera pubblica delle persone qualificate, chiamano in causa il locale circolo culturale il quale, va detto chiaramente, merita sempre e comunque benevolenza. A sviluppare, per assolvere a quei compiti che altrove strutture simili realizzano, farà sempre in tempo.Fino ad oggi non c’è riuscito. Anzi, ha aumentato il numero di quanti, a sentir parlare di cultura, rispolverano le ronche. Il nemico peggiore della cultura, ampliamento in largo e in profondità delle conoscenze, il più micidiale è, infatti, lo spacciare per culturali cosucce che culturali non sono. Ma ritenute tali per accondiscendenza da auto-appagamento, per voglia di alzarsi il prezzo, per difficoltà di mettersi di traverso a un senso debole ma comune.
Oggi, in un momento difficile per tutti, si chiede a Rocca di Papa uno scatto, un sussulto, una voglia di mettersi in gioco, come nella prima de Novecento, quando qui accadevano i progressi e l’asprezza della vita era temperata dalle grandi opportunità circolanti, dalla sensazione di far parte di una comunità in avanzamento, basato su un forte senso di appartenenza e in una consistente, allora addirittura trionfante risorsa, quella del turismo. Sta alla classe dirigente attuale, se c’è, se trova dignità, se rimedia coraggio, indicarci le risorse su cui puntare adesso.
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