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Il dono di nonno Aurelio

Agosto 04
13:02 2009

Mio nonno Aurelio aveva la cantina più bella del paese. Sull’insegna di compensato con una fronda d’alloro c’era scritto Da Aurelio vino di–vino. Il vino lo serviva fresco di grotta e sempre accompagnato da una fetta di pane con un filo d’olio e un pizzico di sale e diceva ai clienti “Offre Aurelio” e a me diceva piano in un orecchio “Così bevono di più e io mi ripago pane olio e sale e mi faccio pure una buona nomina”.
Nonno Aurelio amava bere il vino ma non aveva mai preso una sbronza in vita sua. E non voleva ubriaconi nella sua cantina, solo estimatori del prodotto genuino delle sue vigne.

Era contento quando andavo a trovarlo e sedevo sulla panca con le gambe penzoloni e il mento poggiato sul tavolo e ascoltavo tutto quello che gli uomini si dicevano. “State attenti a come parlate – nonno li avvisava – che qui c’è un angioletto innocente con la testa piena di favole e guai a chi gliele tocca”. Nella cantina gli uomini giocavano a morra, a braccio di ferro e qualche volta alla passatella, ma nonno controllava prima che non portassero il coltello dentro la saccoccia dei pantaloni. E comunque questo gioco a nonno non gli piaceva. Diceva “Questi pigliano fuoco come le stoppie d’estate pure per una sgrullata di cenere, e io il morto qui non ce lo voglio. Meglio i poeti a braccio, che quelli in tasca hanno solo le rime”.
Nonno nella sua cantina era il padrone, non si faceva mettere i piedi sopra da nessuno, sapeva come farsi rispettare. Era piccolo e magro, nonno Aurelio, e con una testa bianca che pareva una cuffia fatta con i bioccoli di lana di pecora, e aveva due occhietti vispi che non stavano mai fermi, sempre a girare intorno per non farsi scappare niente. Di denti ne aveva pochi ma forti come l’acciaio, ci spaccava le noci con un colpo solo e ci sgranocchiava il pane duro e le mele verdi come una macina.
Nonno era istruito. A scuola c’era andato per un paio d’anni prima che suo padre se lo portasse a lavorare alla vigna, ma in quel poco tempo aveva imparato a leggere e a scrivere e a contare fino a cento. L’ultimo giorno che era andato a scuola la maestra se lo era abbracciato e gli aveva detto “Aurelio, non ti dimenticare mai niente di quello che hai imparato e su quel poco continua a metterci roba, fai il maestro di te stesso e insegnati più cose che puoi”. Gli aveva dato un libricino illustrato scritto grosso e Aurelio su quelle poche pagine ci aveva passato le ore più belle della sua infanzia e pure dopo, quando era più grandicello e la mente correva dietro a tanti pensieri e a qualche sogno, quel libricino se lo era rigirato tra le mani come un frutto che più ne mangi e più si rimpolpa, come una mammella che più succhi e più sprizza latte. Quando andò a lavorare sotto padrone e cominciò a vedere qualche lira, nonno Aurelio fece la prima pazzia; il giorno della fiera di sant’Anatolia trovò su una bancarella di dolciumi una pila di libri vecchi e se li comprò in blocco con tutti i risparmi che aveva, più l’orologio da taschino che il compare di cresima gli aveva regalato. Fra quei libri ce c’era uno che parlava degli dei e degli eroi dell’antica Grecia e quello era il suo preferito. Da quel giorno la vita che per Aurelio sempre era stata bella, diventò meravigliosa. Mise via il libricino illustrato che gli aveva regalato la maestra, con le lettere scritte così grosse che ti saltavano agli occhi come grilli, e cominciò a faticare sullo scritto fitto e minuto dei nuovi libri con tante pagine e nessuna illustrazione. Le illustrazioni alle storie che leggeva ce le metteva nonno Aurelio con la sua fantasia, questo mi diceva quando andavo a trovarlo nella sua cantina. “Qui – diceva sbattendosi la mano sulla fronte – c’è tutto quello che esiste e tutto quello che si riesce a immaginare e pure quello che non si riesce a immaginare, che però è come se non ci fosse perché non sappiamo che c’è”.
Nonno Aurelio conservava i suoi libri nella cantina, dentro una nicchia dove c’erano anche carta e penna e diversi quaderni legati con un elastico.
“Io ho scritto tutto quello che ho potuto – mi diceva – perché così non vanno persi i pensieri che arrivano all’improvviso e se non li acciuffi subito e non li chiudi dentro le pagine di un quaderno è come se non fossero mai venuti. Perché il tempo se li porta via e li mischia a tutto quello che passa per la testa di un uomo da quando nasce fino a quando muore, e invece certi momenti è meglio che restano separati, come certe belle conchiglie che non diventano rena se le raccogli e le metti in salvo dentro una scatola dove il mare non può arrivare a riprendersele e a smangiarsele con tutta quella smania di andare e venire che si ritrova”.
Quando sono cresciuto e nonno Aurelio s’era fatto ancora più piccolo, asciutto e raggrinzito come un frutto invecchiato sul ramo, ricevetti la mia bella eredità. Una ricchezza che mio nonno aveva raggranellato a furia di raccogliere briciole di conoscenza e farle lievitare dentro di lui come un dolcepane ripieno di zibibbo. Un dolcepane che io mastico boccone per boccone e ci divento forte, e ci divento umile, perché di fronte al sapere di nonno Aurelio tutto quello che imparo studiando all’Università e frequentando biblioteche e dottori e dottorati, è come rena triturata dal troppo viaggiare, senza più un granello che abbia conservato la sua forma originaria di cui solo il mare ha memoria ma la tiene segreta.
Nonno Aurelio mi ha fatto dono della sua bella conchiglia e poi se ne è andato.
Ogni tanto vado ancora nella cantina a bere un bicchiere di vino che non mi sembra più di–vino, e un giorno forse mi metterò anch’io a fare il cantiniere e appenderò la mia laurea in filosofia lì nella nicchia dov’erano i libri e i quaderni di nonno Aurelio, maestro di se stesso e mio.

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