Il Demiurgo del Partito Democratico
Dopo anni di incertezze, chiacchiere, contrapposizioni e diciamolo francamente anche di faide interne ai partiti, sul nome di Walter Veltroni hanno tutti o quasi concordato che fosse, in questa fase storica della democrazia italiana, il più spendibile, il deus ex machina calato dal cielo per risollevare le sorti di un nascente partito democratico e di un governo sostanzialmente ancorato a obsolete logiche partitocratiche, che stenta a decollare sia in termini di popolarità che di contributo alle riforme sempre proclamate. Attorno a Veltroni si è trovato il coagulo, l’estrema ratio, la caratteristica demiurgica di chi è capace di far ripartire una macchina lenta e farraginosa, ma erano anni che si parlava di lui come l’unico uomo capace di intercettare il sentire di molti italiani e che per una serie di veti, difese egemoniche, obiettivi fatui e vacui tentativi di disarmarne lo charme, non ha potuto indossare la fascia di capitano. Solo quando la sostanziale deriva dell’apparato politico ha cominciato a lasciare sulla strada pezzi e personalità stritolate dalla ragione di partito, anche i suoi “competitor” più affezionati non hanno potuto fare a meno di proporre la sua leadership.
Veltroni ha atteso pazientemente il suo turno e da politico navigato quale è, tessendo la sua tela all’interno di un establishment dove nulla è mai lasciato al caso, ha stancato gli squali alla sua lenza fino al momento in cui, senza nessuno strattone, è bastato tirare sulla propria barca il corpo già esanime di uno strano composto politico, rianimandolo, almeno per il momento.
Tutto questo potrebbe essere considerato un dato, più o meno evidente, mentre l’analisi del concepimento del fenomeno Veltroni è altra cosa, più difficile da spiegare perchè interessa i mutamenti della nostra società e la stratificazione di fattori permeati da una visione del mondo i cui desideri rimbalzano tra le pieghe della manipolazione mediatica e in qualcosa che si struttura in una serie di infingimenti linguistici e nouance simboliche.
Il cosiddetto buonismo veltroniano che ci ricorda l’edonismo reganiano, non per associazione semantica ma per reiterazione e assonanza lessicale, è una finzione che ha preso corpo nelle coscienze degli italiani come tutta quella materia astratta dei messaggi televisivi che prende corpo e diventa presenza figurata. Non credo che in politica esista la categoria della bontà, Veltroni non è diverso da D’Alema e da Fassino se non per una sua sostanziale diversità formale e intraprendenza mitopoietica. È anche lui un figlio di un apparato strutturato in maniera rigida come è sempre stato quello dei Ds, Pds, Pci e con il quale ha fatto conti durissimi per diventarne simbolo, insieme ad altri e dentro il quale non vi è mai stato spazio né per la bontà né per il suo derivato linguistico: il buonismo.
Veltroni è un cinefilo, giornalista, cultore dell’arte, dei simboli della solidarietà come la lotta alla fame in Africa e credo sia diventato sempre più lo spin doctor di se stesso.
Chi meglio di lui conosce il valore dell’equilibrio ecumenico, dello scarto polemico, dell’avvolgente sinuosità del messaggio di fratellanza, del riferirsi continuamente a figure che nel tempo si sono trasformate in ipostasi mitologiche: Kennedy, M.L. King, Willy Brandt, Olof Palme, il Dalai Lama etc. Insomma Veltroni è uno che sa parlare al cuore, lo sa far battere alla propria frequenza, ne individua le debolezze e la forza, e lo alimenta con la consapevolezza di intepretarne i desideri.
Veltroni è quella televisione di qualità che tutti cerchiamo, che celebra ogni volta qualcosa o qualcuno, quella televisione che riesce ad emozionare con le immagini in bianco e nero e stupire con i suoi reportage dalle zone di guerra, che chiosa ogni storia con una morale da critica cinematografica militante, sostenuta da rivereberi hollywodiani più che da denunce alla Ken Loach.
Appare chiaro anche che Veltroni non è un radicale, non tende mai alla polarizzazione della polemica, utilizza le polemiche per entarvi da mediatore, è in poche parole colui che media la radicalità di Pasolini con il realismo socialdemocratico di Palme; coniuga l’ambiguità di Kennedy all’afflato messianico di Madre Teresa di Calcutta, in una sorta di melting pot generazionale, in cui gli echi e le grida di bambini che fanno la raccolta delle figurine Panini si confondono con la telecronaca di Italia Germania 4 a 3.
Gli italiani, in fondo in fondo, vogliono ottimi palinsesti per trascorrere ore liete davanti la Tv e chi meglio di lui sa comprendere i gusti di una middle class di buon livello scolatico.
Conosce bene la differenza tra i programmi unicamente commerciali e quelli che fanno cultura commercialmente ed è esattamente la distanza che intercorre tra gli obiettivi della razza padrona e quelli di una classe dirigente pragmatica e di buon senso.
Forse andrebbero spese altre parole per definire questa ascesa, parole di speranza, come è nel carattere di questo leader ma il dubbio che ci si trovi di fronte a una strana miscela di buona comunicazione e di incertezza progettuale, resta, anche perchè non vedo all’orizzonte nessuna altra classe dirigente che questa.
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