Il corpo e l’anima – 2
Squilibri materialistico-spiritualistici e rivalutazione dell‘animismo come equilibrio materia-spirito. L‘onniteismo non come panteismo, né come feticismo, ma come fede nell’interiorità. La visione dantesca del divino e la visione nietzscheana.
L’uomo, purtroppo, non è come l’animale, che sa cosa prendere e cosa lasciare in totale padronanza di sé. Nondimeno, egli possiede caratteristiche animali, sia pure particolarissime. Come in una bestia, pertanto, deve sussistere in lui, in qualche nascosto meandro del proprio essere, un’energia in grado di poterlo guidare armoniosamente. Il che – certo – non è automatico né istintivo per lui, chiamato a fare pulizia mentale per ottenere una qualche modesta sovranità su se stesso. L’uomo deve liberarsi (facendone tesoro, s’intende) dei plagi collettivi (sempre spritualistico-materialistici), concordi nel tentativo di strapparlo alla propria interiorità, ponendo a dura prova il proprio equilibrio e la propria naturale fede in se stesso.
Se, come dice il Cristo, il regno di Dio è dentro di noi, allora il vero credente è come il vero ateo: non si pone il problema di Dio e non avverte il bisogno di idealizzarlo o di nominarlo invano. Sente il divino dentro di sé (la certezza di essere), similmente a qualsiasi altra creatura vivente, e, come il vero ateo, pratica l’autoanalisi spontaneamente. Sa che non potrà mai conoscere totalmente o padroneggiare se stesso, come predica una millenaria tradizione metafisica che sfocia nel dogmatismo, ma si adopera per ascoltare e cercare umilmente se stesso, trovandosi a volte, per smarrirsi di nuovo e ancora ritrovarsi, fuori da ogni comoda illusione razionalistica.
Ricordiamo la folgorante visione del divino che Dante riceve sul finire del XXXIII canto del Paradiso? Egli scrive: “Dentro di sé, del suo colore stesso/mi parve pinta de la nostra effigie/perché ‘l mio viso in lei tutto era messo”. Ecco l’unica possibile esperienza del divino, la cui impronta è nell’uomo stesso. Il vertice, infatti, è proteso verso il tutto. Non si può invocare direttamente il capostipite universale, scavalcando ed offendendo quella scintilla che egli ci ha dato, facendoci partecipi del suo essere. In tal senso Dio è personale: nel senso che in lui converge ed è inclusa ogni singola personalità.
Risiede nell’uomo la trascendenza. È la nostra coscienza più alta e profonda, il nostro alter ego, il nostro angelo custode (o il nostro demone, se preferiamo): un’identità sempre altra e diversa, proteiforme e stabile, perenne e cangiante nello stesso tempo. Quando Nietzsche preconizza la morte di Dio, è al Dio esteriore delle varie tradizioni metafisiche che intende riferirsi, non certo al Dio interiore di cui qui si parla, che lui in ultima analisi configura come Superuomo. Il punto debole della sua weltanschauung sta nella totale assenza di autocritica di questo dio degli istinti, di questa potenza della natura, di questo animale umano utopisticamente pensato infallibile e magnanimo come ogni altra creatura vivente.
Nell’uomo bisogna mettere in conto la capacità di ribellarsi, non a Dio (che sarebbe oltretutto impossibile), ma a se stesso: facoltà che, in fondo, occorre a stimolargli l’urgenza di recuperare se stesso, risvegliando quel grande animale che dorme nei recessi più nascosti del proprio essere, narcotizzato dai condizionamenti collettivi. Non dimentichiamo che la radice vocale di animale è anima. Ogni animale è fusione di anima e corpo: linearità di elementi distinti e inscindibili, che nell’uomo è ostacolata (non elisa) da una struttura mentale incline allo squilibrio materialistico e spiritualistico.
La nostra cultura millenaria, senza dubbio feconda e ricchissima, si presenta oramai piatta e stantìa nel suo retaggio di conflitti ideologici che sarebbe opportuno superare per dare nuova linfa al domani, ed anche ai nostri giorni. Noi abbiamo purtroppo dimenticato la reale struttura animale del vivente, sospesa nell’equilibrio di anima e corpo. Nelle culture primordiali questa conoscenza è assodata. Animismo è esattamente il nome dato a quelle culture, consapevoli della presenza di forze numinose operanti nel creato e nel cosmo. Le culture originarie conoscono l’energia indistruttibile di ogni organismo vivente, la forza primigenia dell’universo, diffusa dovunque ed insita in ogni ente.
Non è il panteismo che racchiude e imprigiona Dio nel mondo, se mai è il panenteismo che lo ritiene immanente e trascendente nello stesso tempo. L’animismo, tuttavia, non parla di Dio direttamente, ed in questo è simile alla teologia negativa, come in fondo ad ogni misticismo consapevole dell’ineffabilità del sommo. Con in più la percezione di una presenza effettiva, seppure indiretta, del supremo nel mondo, realizzata attraverso l’affidamento ad ogni creatura delle proprie coordinate intelligenti (non parlo di intelligenza razionale, ovviamente, ma di intelligenza arcana, e diciamo pure di irrazionale intelligente).
Può sembrare ridicola questa pluralità di déi, come in effetti sembrò a Senofane ed ai primi filosofi che giustamente pensavano a Dio come all’unitario principio ordinatore del mondo. Se tuttavia immaginassimo Dio come un essere personale distinto, lo ridurremmo inesorabilmente a parte e ciò risulterebbe non meno ridicolo per un essere cui debbono riferirsi i requisiti del tutto. L’onniteismo, in fondo, è la risposta più primitiva e più saggia: una forma di monoteismo implicito, dove l’assoluto, il principio ordinatore e universale del mondo, è visto come esplosione cosmica d’amore individuale. Una sorta di Grande Spirito, per dirla nei termini dei nativi americani: un unico molteplice divino che opera nell’al di qua indissolubilmente legato all’al di là. Un tutt’uno, un due in uno, sostanzialmente.
L’onniteismo di cui parlo, pertanto, non va confuso con il panteismo, per il quale Dio è a una sola dimensione; né confuso con il politeismo, che racchiude il supremo in un pantheon, in una ristretta oligarchia divina. E va anche chiarito che, parlando di animismo, non intendo riferirmi al feticismo o alla superstizione, da considerarsi degenerazioni dell’originario credo animistico. Un conto, infatti, è adorare lo spirito della roccia e dell’albero, un altro è adorare la pietra e la pianta in quanto oggetti fisici.
Questa degenerazione, d’altro canto, non riguarda soltanto l’animismo, ma appartiene a qualsiasi forma di religione ed anche di ateismo. Non è immune dal feticismo lo stesso monoteismo, laddove individua e antropomorfizza (oggettualizza) l’essere supremo. Del resto, quante altre forme di feticismo possiamo trovare, diffuse nelle varie credenze? È questa, probabilmente, la considerazione che ha indotto Karl Barth a distinguere tra fede e religione, tra culto delle apparenze e credo individuale profondo.
La trasformazione dei simboli in feticci, delle metafore in dogmi, della mitopoiesi in mitologia, è purtroppo assai radicata ed appartiene all’esperienza comune. Si pensi alle guerre di religione. Se si potesse credere che un identico riferimento spirituale può venire tranquillamente espresso da una molteplicità di differenti simbologie, le ragioni dei conflitti svanirebbero e verrebbero meno le triviali contrapposizioni. Ciò non accade per via del feticismo, per cui il simbolo viene adorato in quanto oggetto e non in quanto entità materiale-spirituale. A che serve parlare di tolleranza religiosa e di convivenza tra opposti credi in assenza di questo chiarimento fondamentale? (Continua)
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