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Il corpo e l’anima – 1

Settembre 13
18:50 2009

Il pensiero debole non è quello della différence, ma quello della globalizzazione e dell’omologazione, degno epilogo di una cultura razionalistica fondata sullo scontro dialettico (fagocitazione). Proficuo tornare, allora, al concetto dell’armonia dei contrari, attivabile nell’esperienza interiore, irrazionalistica, dove le divergenze, pur contrastandosi ferocemente, sono chiamate a collaborare nel nome dell’umano.

Come è noto, Gianni Vattimo, accreditato studioso post-heideggeriano, nonché geniale interprete dell’ermeneutica di Gadamer, in accordo con Lyotard ed altre interessanti voci filosofiche d’oltralpe, configura il cosiddetto pensiero debole nel quale viviamo, in virtù dei suoi caratteri elastici, dinamici e liberi dai punti fermi del moralismo antico, in modi alternativi al pensiero forte e dogmatico che per secoli o millenni ha dominato nelle culture dell’umanità.

Resta da chiedersi, a mio avviso, se la società postmoderna, sorta dalle ceneri delle tronfie metafisicherie e dalla bancarotta delle ideologie del genere più vario, sia realmente pluralistica e rispettosa delle diversità.

Così sarebbe se il dissolversi delle vecchie favole e del rigido pensiero mitologico degli avi stesse oggi davvero stimolando, per contrasto, un ricco e variegato fermento mitopoietico di vera libertà e se lo smantellamento dei passati assolutismi stesse producendo una nuova e inarrestabile spinta alla creatività. Basta poco, purtroppo, per comprendere che non è questa la realtà. L’omologazione e la globalizzazione stanno rendendo il mondo sempre più livellato e piatto, sempre più a una sola dimensione, ed una massa sterminata, non di uomini, ma di numeri, sta prendendo il sopravvento sugli individui e sui popoli, disperdendo la creatività dei singoli e delle comunità nel maremoto montante dell’inautentico si dice, si fa.
Si potrebbe argomentare che la massificazione oggi imperante non è altro che un prevedibile colpo di coda dei passati pensieri forti, ma non è così. A partire dal Nichilismo, la demitizzazione sistematica del mondo antico, condotta a tutti i livelli della cultura e del vivere civile, ha avuto realmente la forza di disintegrare i vecchi dogmatismi, cambiando per certi versi il mondo, pur senza riuscire a liberare nel profondo l’umanità.
Voglio dire che lo strapotere ha solo cambiato abito e che si viene oggi instaurando, a livello planetario, una forma di assolutismo mai sperimentato prima nella storia dell’umanità: l’assolutismo relativistico, il dominio incontrastato della finanza e delle tecniche (degenerate da mezzi a fini), che viene sostituendosi all’assolutismo mitologico del passato, talché il pensiero debole può mostrare, non meno di quello forte, i suoi artigli poderosi e la sua aggressività.
Il villaggio globale dei nostri tempi pone l’una accanto all’altra le varie culture, relativizzandone i valori; e questo è un bene, in quanto cancella ogni illusione sulla possibilità di trovare punti di riferimento assoluti sul piano orizzontale della cultura, della tradizione, della storia, ovvero sul piano della relatività. Tuttavia l’acquisizione di questa consapevolezza sarebbe un’occasione sprecata se non dovesse spingere verso l’analisi interiore, verticalmente tesa alla ricerca di valori assoluti dentro se stessi, anziché nell’esteriorità. L’assoluto e il relativo sono piani paralleli, ma distinti e diversi tra di loro; e se si prova a trasferire il parallelo nel parallelo si finisce per fare una grande confusione che nuoce gravemente all’umanità.
Ecco l’assolutismo, che non è una forma di potere (pur sempre a misura d’uomo, se esercitato con criteri relativistici), ma di strapotere che soffoca e strumentalizza gli individui per fini egemonici. Ed è da superficiali credere che l’assolutismo possa venire contrastato fomentando uno stato di rivoluzione permanente nella società. Ben venga la rivoluzione sociale, se occorre, ma non è questo, a mio parere, il metodo per realizzare una vera cultura della différence. Ciò che è altro o diverso, va cercato in noi stessi. Un vero stato di lotta permanente può avvenire solo nell’interiorità. Tanto più il fermento creativo è originale ed autentico, quanto più affonda nell’interiorità.
Il sociale ne è investito di riflesso, in quanto l’individuo rinnovato interiormente non può fare altro che agire in società. Se si preferisce pescare nel sociale direttamente, anziché dentro se stessi, si resta nell’orbita dei pregiudizi e della superficialità. Le ribalte, infatti, tendono da sempre ad esaurire nel manierismo e nello schematismo le spinte autentiche della creatività. Ecco che occorre restituire al singolo quella centralità di se stesso che lo strapotere tenta di cancellare, succhiandone ogni risorsa materiale e psicologica, ma soprattutto spirituale. E spetta ovviamente al singolo (non ad altri) scaltrirsi in questa riappropriazione del sé.
C’è da chiarire, a questo punto, un concetto fondamentale. Non è vero che chi predilige una visione interiore della vita ha in odio la lotta ed ama porre la testa sotto terra come gli struzzi. A ben guardare sono proprio le dialettiche ad avere in odio la lotta, in quanto tendono ad eliminare o ad attenuare i contrasti, molto più che ad accettarli nella loro ricchezza, conservandoli in quanto tali. È certamente vero che in una visione interiore le opposizioni più radicali tendono a convergere e a conciliarsi tra di loro, conservando però integro il loro stato di tensione originario. L’interiorità, infatti, per quanto sfuggente ed enigmatica, è e resta un centro unitario dove è realmente possibile fare esperienza dell’armonia dei contrari. Ciò non è dato sul piano dell’esteriore dialettica, dove si cerca la fine della lotta, non la lotta come fine.
Prendiamo il caso della contraddizione tra assoluto e relativo. Se proviamo a pensarli come esperienze interiori, ci accorgiamo che li stiamo già armonizzando ed il nostro stesso essere ci appare in frammentata unità, al tempo stesso dinamico e statico, immutabile e metamorfico, assoluto e relativo. Per questo motivo, io trovo generica e impropria la battaglia che in ambiti cattolici si sta conducendo nei confronti del relativismo. Dall’angolazione della coscienza, assoluto e relativo si compenetrano e si giustificano l’un l’altro. Se tutto è relativo, infatti, anche il relativo è relativo. E dove trova i suoi limiti il relativo, se non nell’assoluto che a lui si oppone? Di più: se l’assoluto è il tutto, esso deve necessariamente accogliere in sé il suo contrario relativo.
Quanto meno bisognerebbe distinguere, allora, un relativismo sano, da cui scaturisce l’esigenza dell’assoluto, da un relativismo malato e soffocante, che mostra di essere una forma mascherata di assolutismo proprio nel suo voler negare ad ogni costo l’assoluto. Di pari passo occorrerebbe distinguere tra un’ansia di assoluto sana, che pretende il rispetto del relativo, ed un assolutismo insano, che mostra la sua partigianeria ed il suo fanatismo (il suo relativismo) proprio nel voler soffocare la relatività. È nell’interiorità che si può trovare l’equilibrio. Soltanto là assoluto e relativo si toccano e si possono accordare, mentre le loro strade si dividono in una visione proiettata all’esterno coscienziale, poco importa se in senso ascetico o materialistico.
Identico discorso può farsi nella contrapposizione fra Dio e uomo, fra Dio e mondo. Quello dell’esistenza di Dio è un falso problema razionalistico, perché la più elementare ed enigmatica fede dell’uomo, ateo o credente che sia, è nel suo stesso essere, unico e irripetibile. Il problema di fondo, per l’uomo, è di attivare questo credo individuale che, tranne il caso di malattie neuro-psicologiche, accomuna tutti indistintamente. Infinite e personalissime sono le vie per alimentare questo amore di sé (filautìa) che non va confuso con l’infatuazione di sé (amor proprio). Le medesime fedi religiose, e finanche l’ateismo, possono essere strumenti validi, se usati come tali, anziché come fini: se cioè l’obiettivo è di porsi in discussione di fronte al proprio specchio per darsi giudizi equi e non partigiani. (Continua)

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