Il coraggio dell’illusione: romanzo di Aldo Onorati
È piuttosto infrequente imbattersi in un incipit che suoni così secco, categorico, quasi dispotico, come quello di questo libro. Spesso, un qualunque autore, all’inizio d’una narrazione qualsiasi, tende a prendere per mano il lettore per condurlo, gradualmente, dentro la storia raccontata, magari incuriosendolo, strada facendo, con qualche velato accenno ad un successivo e stuzzicante sviluppo, oppure affascinandolo, sin dalle prime sillabe, con un linguaggio ricco di accenti.
Nel caso del romanzo di Aldo Onorati: “Il coraggio dell’illusione” (ed. Società Editrice Dante Alighieri), invece, l’incipit tuona come una dichiarazione categorica con la quale l’autore, determinando anticipatamente l’arco temporale entro il quale la storia si dipanerà, intende certificarne subito la storicità e l’unicità, anche se, in realtà, per il respiro che anima tutta la vicenda e i temi che vi si affrontano, “Il coraggio dell’illusione”, così come palesemente chiarisce il titolo, non è altri che un crudo e illusorio racconto di vita, senza luogo né tempo, perché, soprattutto, è cronaca dell’animo umano.
Nella prima parte della storia, che richiama alla mente l’impostazione, la struttura e il respiro dei grandi romanzi ottocenteschi e dove vi si effonde uno spirito da narrazione epica, l’autore ci racconta gli ultimi barlumi, ormai svaniti nell’incombente quotidianità contemporanea, di una società contadina che non avverte ancora il pericoloso, e mortale, approssimarsi di una nuova civiltà, quella industriale, pronta a fagocitarne le arcaiche esperienze di sopravvivenza. La terribile minaccia che incombe implacabilmente sulla sorte di questo mondo arcaico, foriera dell’inarrestabile marcia del cosiddetto progresso che cancella ogni tradizione e con essa anche l’uomo che la genera, diventa la metafora del percorso lungo il quale si svolge anche la rocambolesca vita di Felice.
La vicenda è nettamente contrassegnata da almeno tre momenti salienti che caratterizzeranno la storia occorsa al protagonista, così vigorosamente impregnata d’amara solitudine fino al punto di condizionarne e determinarne i pensieri, le scelte, i comportamenti e, infine, il destino. L’ingiusta e falsa accusa di omicidio, la detenzione e il successivo tradimento di Quintilia, prima, la morte del figlio in guerra, poi, sono le vicende che formano gli elementi costituenti quel primo momento cruciale dell’esistenza del protagonista e che segnano una profonda cesura fra il Felice contadino e figlio di contadini, mitologico erede degli ominidi (mi riferisco al libro dello stesso Aldo Onorati “La sagra degli ominidi”, epica descrizione degli ultimi contadini-bevitori dei Castelli Romani), e l’altro Felice, quello ormai evoluto, alfabetizzato e visionario, che entra a pieno titolo nella tragicomica e collettiva commedia degli uomini.
Infatti, benché Felice sia un chiaro parto degli ominidi, egli non lo è già più, sin dal primo momento, perché se ne distacca, soprattutto, per la sua voglia di riscatto, che ai suoi procreatori non è concesso neppure d’intravedere. Tuttavia, gli ominidi, seppure ormai cristallizzati dalla storia, sono sempre presenti sulla scena, magari non troppo lontani, certamente appartati, collocati sullo sfondo, opachi e sfocati; ed è anche per questo che l’inevitabile raffronto di questi con il personaggio principale si fa difficile, divenendo addirittura improponibile se si fa il confronto tra Felice e i suoi predecessori, perché Felice è anima più complessa dei suoi avi, il suo carattere, ben delineato, è più ricco di sfumature, il suo sguardo è volto all’esterno e al futuro, la sua testa è piena di pensieri e d’ideali, pur essendo coinvolto fino al collo nelle vicende proprie e di coloro che gli stanno attorno.
Il secondo, importante momento della vita di Felice, giunge quando, dopo l’abbandono di Loretta (la nuova compagna della sua maturità), Felice entra prepotentemente in politica perché si sente chiamato a battersi contro le ingiustizie e per una società migliore, mutando, e, nello stesso tempo, travisando, la sua volontà di riscatto in una missione di redenzione morale e sociale, propria ed altrui. È da questo momento che la cesura fra i due mondi, quello arcaico e quello moderno, si fa orrido invalicabile, e di questa scelta Felice ne fa prateria lungo la quale sciogliere le briglie delle proprie illusioni, finendo, però, per essere avviluppato mortalmente nelle fitte e ingarbugliate maglie della politica, cedendo agli interessi particolari, stemperando la propria fermezza nei momenti in cui la strategia politica glielo richiede e venendo meno anche ai propri ideali, spinto dalla rabbia e dal rancore. E in questo frangente, Felice avverte, ancor più, il gravoso peso della solitudine: egli, infatti, è sempre stato un uomo solo, come lo sono tutti gli uomini in ogni tempo e in ogni luogo, ma ora sente di esserlo ancora di più, quasi fosse la propria natura umana.
Gli accadimenti della vita che seguiranno, i colpi che riceverà la sua salute e che contribuiranno a minarne anche il pensiero, i rapporti con gli altri che si deterioreranno, in particolare con i propri figli, contribuiranno a segnare sempre più l’animo del protagonista fino a spingerlo verso una forma d’anarchia esistenziale che costituirà l’elemento cardine attorno al quale ruoterà il resto della sua vita. Da questa particolare condizione, infine, ha origine la terza e ultima fase della parabola umana
di Felice che, nonostante le dure esperienze vissute, non rinuncia alla propria missione redentrice, anzi, egli, se proprio non può più far altro, si decide: “…a dar fastidio”, impegnandosi in un tentativo di resistenza nei confronti di tutto e di tutti che, però, sente già disperato. Alla fine, Felice si sente sconfitto, stanco, svuotato; gli è rimasto soltanto, nell’animo, un consolatorio empito d’amore, un sentimento atavico, arcaico, che ritrova e rivive fra i filari della sua vigna, calcando le zolle della sua terra, chiudendosi fra le mura della sua casa, e per il quale, infine, pur se
inconsciamente, paga con la vita.
Carmelo Marzano, autorevole critico del Novecento, definisce “Il coraggio dell’illusione” opera morale, ma non moralistica e l’iniziale citazione del Vangelo messa ad esergo, riportata nell’occhiello, ne è indizio certo. In particolari momenti di questa storia, infatti, sembra che protagonista e narratore s’identifichino in un afflato comune d’angosciosa richiesta di verità e giustizia umana e, forse, anche divina; entrambi sembrano camminare insieme lungo una strada lastricata d’irraggiungibili ideali, la sorte dei quali è espressa, amaramente e chiaramente, attraverso l’inutilità della speranza, perennemente offuscata dalle tenebre della spietata realtà, che per essere affrontate, purtroppo, necessitano proprio de: “Il coraggio dell’illusione”!
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