Il Concilio Ecumenico Vaticano II (parte 3/7)
La Gaudium et Spes
C’è una ragione a spiegare perché la Gaudium et Spes (da qui GS), cronologicamente la quarta Costituzione conciliare, sia stata approvata l’ultimo giorno del Concilio, quando ormai si cominciava a temere l’impossibilità di raggiungere l’accordo su un testo condiviso. Il motivo di tanta difficoltà è evidente: se leggessimo adesso, per la prima volta, la GS e la mettessimo a confronto con qualsiasi altro documento del magistero a noi contemporaneo non potremmo non notare una mano diversa, uno stile più fresco e lineare in sintonia con le prime parole del testo, parole che italiano sono ancora più incisive: “la gioia e la speranza”. Tanto più è limpida questa leggerezza stilistica quanto più la si deve considerare fondata su un dato sostanziale di tutta evidenza: la GS è un documento impregnato di un profondo ottimismo teologico. Questo sguardo ottimistico sulla natura dell’uomo e della società secolarizzata mi pare che sia a fondamento di tutto il Concilio. Chi era contro la GS era ed è contro lo sguardo pieno di gioia e speranza con il quale la Chiesa guardava l’uomo alle prese con le sue vicende quotidiane. Non è un caso il fatto che il documento sia stato approvato da 2.307 dei vescovi, ma rifiutato da ben 75 porporati: la GS è il documento che più degli altri segna l’apertura della Chiesa allo spirito dei tempi, il documento più chiaro ed innovativo.
L’innovazione della Costituzione non è soltanto nelle sue affermazioni particolari, le quali non intendono innovare il magistero sociale della Chiesa, rimandando, per quanto riguarda la dottrina sociale, alle encicliche Mater et Magistra e Pacem in terris di Giovanni XXIII ed anche alla Ecclesiam suam di Paolo VI. L’aspetto più radicalmente della GS riguarda l’impostazione generale del documento, che appare centrato su due rivoluzioni dalle quali ne scaturisce una nuova comprensione teologica del mondo e del suo rapporto con la Chiesa:
a) la Chiesa ha il dovere di mettersi in ascolto del mondo contemporaneo, colto in una dimensione dinamica ed evolutiva (n. 5) e non più statica e conservatrice, ed adattare il modo di svolgere la sua missione alla sensibilità contemporanea: “… è dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche” (GS, 4).
b) cogliendo le suggestioni di teologi come Karl Rahner, che partecipa al Concilio in veste di perito, la GS descrive l’uomo, ogni uomo, come creato naturalmente in sintonia con il messaggio divino. L’uomo è già creato per essere salvato. Certo, durante il suo cammino storico, accetta o rifiuta questa chiamata al compimento del progetto divino. Senza dubbio, questa concezione è problematica per la tradizione cattolica ed apre il problema della distinzione tra natura e grazia, tra storia umana e storia della salvezza, tuttavia è anche evidente con quale straordinaria forza dirompente si presenti una impostazione che valorizzi pienamente la dimensione naturale dell’attività umana, offrendole il ruolo di dimensione autonoma, al tempo stesso laica e liberatrice.
Ma tentiamo di entrare al cuore dell’impostazione. L’uomo, a motivo dalla volontà di Dio che vuol salvare tutto il creato, è naturalmente predisposto ad ascoltare il messaggio di Dio. Se con la tradizione teologica cristiana affermiamo che l’uomo è fatto per Dio, dobbiamo anche presupporre che nel suo marchio di fabbrica ci sia già l’impronta buona e compatibile con il progetto divino. Per questo motivo gli atti naturali e autonomi degli uomini possono essere buoni, pur non essendo esplicitamente catalogabili come “religiosi”. Certo la teologia cattolica può affermare che questi atti sono comunque sorretti da una grazia misteriosa ed invisibile, ma per questo stesso motivo la stessa teologia deve mettersi in ascolto dell’uomo che si organizza nella società, rivendica i suoi diritti e costruisce dinamiche solidali e di liberazione. La teologia deve anche considerare questi atti sociali, pure autonomi e naturali, come “religiosi e graziosi” e quindi di interesse specifico del teologo.
L’uomo è quindi il centro della riflessione che conclude il Concilio, ma è anche il destinatario dell’aiuto che a lui offre la Chiesa, al fine di creare una comunità in sintonia con la natura umana, che è però già pervasa dal soffio divino:
“È l’uomo dunque, l’uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità…che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione…pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine di instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione” (n. 3).
Ma quali sono le aspirazioni di questa umanità, pervasa dal germe divino, già impegnata in un dinamismo escatologico, ma non ancora pervenuta alla sua meta? Sorprendentemente la GS si sofferma su una dinamica centrata su un principio di liberazione ed emancipazione, ponendo l’accento sulle aspirazioni ad un ordine “sociale ed economico che sempre più e meglio serva gli uomini ed aiuti i singoli ed i gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità. Donde le aspre rivendicazioni di tanti che, prendendo nettamente coscienza, reputano di essere stati privati di quei beni per ingiustizia o per una non equa distribuzione… anelano infatti ad una vita piena e libera, degna dell’uomo, che metta al proprio servizio tutto quanto il mondo oggi offre loro così abbondantemente” (GS 9). Il documento, in questo come in altri passaggi centrati sulla dinamica tra paesi sviluppati e popoli in via di sviluppo, è sorprendente per la sua forza profetica: non solo siamo in anticipo di quasi mezzo secolo dall’epoca della “globalizzazione”, ma il Concilio anticipa cronologicamente di qualche anno anche i movimenti del ’68 e quel processo di radicale trasformazione della società che proprio in quegli anni ha avuto nei cristiani più fortemente ispirati al Concilio un punto di forza anche all’interno dello stesso movimento di contestazione studentesca.
Certo è che il Concilio non è un manifesto politico e le rivendicazioni sociali che la GS prospetta sono viste in funzione di un cammino che lega tra loro la libertà spirituale e le condizioni di vita materiale: la libertà umana si impoverisce quando l’uomo cade in indigenza (nn. 30, 31). Le rivendicazioni ad un benessere materiale sono condivise non solo per un sentimento di pietas nei confronti dell’ultimo, ma anche e soprattutto perché attraverso una più dignitosa condizione di vita, che passa attraverso un’equa distribuzione dei beni, ciascuno sia facilitato nel suo cammino verso l’emancipazione spirituale. L’impoverimento materiale genera l’impoverimento spirituale, liberare l’uomo dalla povertà significa creare i presupposti per la piena realizzazione spirituale alla quale l’uomo è chiamato dalla sua stessa natura.
Man mano che nel documento si avvicinano i temi più esplicitamente religiosi l’ottimismo verso la natura dell’uomo si fa sempre più pressante ed inchioda ogni uomo alla propria responsabilità. Dal momento dal suo nascere, ogni uomo, è chiamato al dialogo con Dio (nn. 20,21) ed attraverso la propria attività l’uomo non solo si relaziona all’ambiente, modificandolo, ma modifica se stesso, “esce da sé e si supera” (n. 35) afferma il Concilio, utilizzando un’espressione della filosofia post-hegeliana. Ecco quindi che le realtà terrene sono il frutto non solo della creazione divina, ma anche della intima attività trasformatrice dell’uomo. Le realtà sociali e materiali acquisiscono una loro autonomia e legittimità fondando una mutua relazione tra Chiesa e mondo (nn. 40-45), tanto che i capitoli successivi della GS sono tutti dedicati alla relazione trasformatrice tra l’uomo e le realtà che lo circondano, comprese le istituzioni sociali. Nasce su questi presupposti tutta la II parte della GS, la quale si occupa del matrimonio e della famiglia, centro della vita cristiana (nn. 47-52) e della cultura, attraverso la quale l’uomo raggiunge “un livello di vita veramente e pienamente umano…., coltivando i beni e i valori della natura” (n.53) sfruttando lo sviluppo delle scienze naturali e umane, anche sociali, il progresso delle tecniche e lo sviluppo ed organizzazione degli strumenti di comunicazione sociale (n. 54). Riprendendo il suo spirito “rivoluzionario” la GS sostiene che la cultura scaturisce direttamente dalla natura ragionevole e sociale dell’uomo, ha, quindi, un incessante bisogno della giusta libertà per svilupparsi e le si deve riconoscere la legittima possibilità di esercizio autonomo secondo i propri principi (n. 59). Meritano, invece, di essere citati uno per uno i titoli dei paragrafi del III capitolo, quello dedicato alla vita economico-sociale: dopo il n. 63, di introduzione, abbiamo il 64, Lo sviluppo economico al servizio dell’uomo, il 65, Lo sviluppo economico sotto il controllo dell’uomo, il 66, Ingenti disparità economico sociali da far scomparire, il 67, Lavoro, condizione di lavoro e tempo libero, il 68, Partecipazione nell’impresa e nell’indirizzo economico generale; conflitti di lavoro, il 69, I beni della terra e la loro destinazione a tutti gli uomini. Il capitolo si chiude con un richiamo ai cristiani perché nella loro partecipazione al progresso del genere umano brillino per l’esempio della loro vita e non dimentichino la giusta gerarchia dei valori.
La Costituzione conciliare si conclude con il IV e V capitolo, rispettivamente dedicati alla Vita della comunità politica ed alla Promozione della pace e la comunità delle nazioni, i quali ribadiscono in linea di massima gli insegnamenti sociali della Chiesa ma sviluppano una serie di problematiche che saranno ulteriormente trattate nella Populorum Progressio di Paolo VI, pubblicata il 26 marzo 1967, e che riguardano la natura della pace (n.78), la condanna assoluta della guerra e l’azione internazionale per evitarla (n. 82), il rifiuto della corsa agli armamenti (n.81), le quali non solo appaiono oggi di stringente attualità ma forse non hanno più trovato una trattazione così compiuta, coraggiosa e completa.
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