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Il Concilio Ecumenico Vaticano II (parte 2/7)

Marzo 01
02:00 2008

La liturgia, la costituzione Sacrosantum Concilium
Quando finalmente iniziarono i lavori del Concilio si prese atto dell’esistenza di forti tensioni in seno all’assemblea, dovute alla presenza tra i vescovi di due schieramenti, uno conservatore, l’altro progressista. Per evitare la paralisi dei lavori, si cercò allora di risalire la china dal punto apparentemente più abbordabile: la liturgia. Fu un’illusione: anche questa prima costituzione, la Sacrosanctum Concilium (da qui: SC), fu approvata solo a seguito di gravi compromessi, non ultimo quello di redigere un documento aperto, che dettava alcuni principi fondamentali, ma che sostanzialmente rinviava la partita al periodo successivo il Concilio: solo in questa seconda fase sarebbe stato possibile prendere le decisioni concrete, incarnando le affermazioni di principio contenute nei documenti conciliari. È significativo il fatto che al termine del Concilio, Paolo VI definì la SC come «frutto di una discussione ardua e intricata», ed indicò proprio il rinnovamento liturgico come «il frutto più visibile di tutta l’opera conciliare» (12). Non a caso la liturgia è stata anche il nodo centrale delle polemiche post-conciliari, in gran parte oggi ancora aperte, con il ritorno di alcuni temi cari al “tradizionalismo” abbastanza esplicitamente favorito dall’attuale gerarchia romana. La recente polemica sulla preghiera del Venerdì santo, inoltre, ben rappresenta una ulteriore complicazione: quella legata all’armonizzazione, evidentemente ancora incompiuta, tra le affermazioni del Concilio che non si occupano esplicitamente della liturgia (in questo caso il rapporto tra ebraismo e storia della salvezza, reintepretato dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate, cfr. art. 4, 4198) ed il rito. La contrapposizione all’interno del Sacro collegio era chiara: da una parte si confrontavano le istanze maturate nell’ultimo mezzo secolo e veicolate dal movimento liturgico che aveva già coronato di alcune vittorie il suo cammino con le riforme di Pio XII sull’attenuazione delle norme sul digiuno eucaristico (1953), l’introduzione della messa vespertina e l’Ordo della Settimana Santa e della Veglia pasquale (1955). Tali significativi atti di apertura ai segni dei tempi partivano da lontano: già Rosmini, nel testo Delle cinque piaghe della santa chiesa, puntava il dito sulla distanza del popolo dalla liturgia. Dall’altra parte della barricata i conservatori che trovarono voce soprattutto nei cardinali Spellman, Ottaviani e Ruffini. Questi ultimi centravano le loro riflessioni sulla necessità di mantenere l’obbligo della lingua latina, fondato anche sul fatto che sul finire delle discussioni intorno alla SC, il 22 febbraio 1962, il papa aveva emanato la costituzione Veterum Sapientia sullo studio del latino. C’era poi da affrontare il nodo teologico del rapporto tra sacerdozio ministeriale (quello propriamente detto) ed il sacerdozio comune (condiviso dai laici): questo nodo toccava da vicino le argomentazioni a favore di una maggiore partecipazione del popolo alla liturgia. Se la liturgia è “l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo” (SC, 7) quale ruolo debbono giocare i laici in questa “azione sacra per eccellenza” (SC, 7)? In sostanza: il popolo è spettatore più o meno attivo della liturgia o partecipa in quanto condivide, nella sua specificità laicale, la dimensione sacerdotale del cristianesimo? Seppure in maniera attenuata vinse la spinta progressista della quale è segno evidente la risoluzione di istituire dei veri e propri ministeri riservati ai laici all’interno della liturgia, come il lettorato (previsto già dalla SC, 29) e l’accolitato, e la successiva elaborazione del ministero straordinario dell’eucarestia. Il lettorato e l’accolitato, infatti, erano ordini minori, che preparavano all’ordinazione sacerdotale. Aprire ai laici tali ordini e trasformarli in ministeri significa includere esplicitamente il laico nella dimensione sacerdotale. Sicuramente queste decisioni sono coerenti con il messaggio e la tradizione cattolica, quasi scontate per i tempi, tuttavia inflissero un grave colpo alla gerarchia conservatrice ed a chi vedeva nel sacerdote il Cristo in terra, per nulla disposto a condividere con i laici alcune manifestazioni della funzione sacerdotale del cristiano. Anche qui la SC non dichiara nuove verità di fede ma ribadisce in maniera inequivocabile la partecipazione dei laici tutti al sacerdozio di Cristo ed al tempo stesso insiste sul concetto di Chiesa come popolo, ricollegandosi alla storia del cristianesimo e leggendola alla luce dei tempi: “È ardente desiderio della Madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta alla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato» (I Pt. 2,9) ha diritto e dovere in forza del battesimo” (SC 14). Ancora più complesso il significato di permettere l’accesso dei laici coniugati al diaconato permanente, primo grado dell’ordine, riservando ai sacerdoti celibi il secondo e terzo grado (presbiterato ed episcopato). Anche questa disposizione fu introdotta solo a livello generale dal Concilio (nella Lumen Gentium, al n. 29) e resa esecutiva in Italia dai Vescovi italiani, in varie tappe, sul principio degli anni ‘70. Altro grave ostacolo, per i conservatori, era costituito dalla possibilità di celebrare la liturgica nelle varie lingue locali: questa concessione apriva la strada alla possibilità di adattare il rito alla cultura dei diversi popoli, finendo con il diversificare il rito stesso ed i segni caratterizzanti la liturgia universale adattandoli alla comprensibilità dei fedeli. In vista dell’elaborazione dei messali nelle varie lingue locali, il Concilio chiese esplicitamente di non “imporre, neppure nella Liturgia, una rigida uniformità” (SC, 37), ma auspicò, anzi, che fossero introdotti nella stessa Liturgia elementi tratti dai costumi dei popoli.
Sul tavolo erano anche i problemi relativi alla concelebrazione ed alla comunione sotto le due specie. Dal momento che cominciava a delinearsi, come accennato, la possibilità che la partita si giocasse in un secondo momento, bisognava anche stabilire quale fosse l’autorità competente per la riforma liturgica. Proprio su questo punto, a proposito dell’adozione della lingua volgare, si registrò una vera e propria rivoluzione, poiché il Concilio spostò il luogo della decisione dal centro alle comunità locali: fu stabilito che i vescovi delle singole conferenze episcopali avessero il diritto di decidere sulla questione (11). Stessa decisione venne presa successivamente per la questione della concelebrazione (55) e della comunione sotto le due specie (57).
Infine fu affrontato il problema dei nuovi libri liturgici, lo strumento che avrebbe segnato l’inizio di un nuovo approccio alla liturgia. Ma per far questo si dovette tornare su un principio importante: la Liturgia consta di due parti, una immutabile, l’altra formata da “parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o anche debbono variare, qualora in esse si fossero insinuati elementi meno rispondenti alla intima natura della stessa Liturgia o si fossero resi meno opportuni…in tale riforma l’ordinamento dei testi dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà, da essi significate, siano espresse più chiaramente, il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e, per quanto possibile, parteciparvi con una celebrazione piena, attiva, comunitaria” (SC, 21). Si ribadì, in questa occasione, un principio molto importante: alcune decisioni della Chiesa, in questo caso nel campo liturgico, sono il frutto dei tempi e non hanno, sempre, un valore universalmente valido. Tuttavia, sebbene i conservatori dovettero cedere sui principi, si assicurarono un controllo più severo sulle fasi successive della riforma dei libri liturgici, questa volta sottraendo alle chiese locali l’onere della redazione, che veniva invece affidato ad apposite commissioni centrali formate da persone competenti di ogni nazionalità e coordinate dalla Santa Sede. Fu questo il compito del Consilium ad exsequendam constitutionem de sacra liturgia.
(continua)

Renato Vernini renverni@tin.it

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