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Il complesso di Nerone

Il complesso di Nerone
Aprile 01
16:39 2016

Il più famigerato degli imperatori romani, artista fallito, vinse tutti i premi della sua epoca, con ricatti e blandizie. Una nevrosi ereditata da tanti scrittori e uomini di successo contemporanei

Il più popolare e famigerato degli imperatori romani, Nerone, conosciuto per le sue crudeltà e le sue stranezze (la patologica passione per i cavalli, la lussuria e la cupidigia), nonché per l’incendio di Roma, fu dominato per tutta la vita da una megalomania ridicola: la convinzione di essere un grande artista, un cantante eccezionale. Il desiderio sfrenato di vincere ogni premio lo portava a partecipare a tutti i concorsi, con un impegno – e un ossequio al regolamento – che aumentano la contraddittorietà del personaggio.

Scrive Svetonio, in Vita dei Cesari: «Nerone era lui stesso che si proclamava vincitore: per questo, dappertutto, gareggiò anche come banditore. E perché non restasse da nessuna parte il ricordo o la traccia dei vincitori dei giochi sacri, ordinò di abbattere, trascinare con un uncino e gettare nelle latrine tutte le loro statue e i loro ritratti… D’altra arte è appena immaginabile con quanta ansia e con quanta emozione gareggiasse, quale gelosia provasse per gli avversari, quale timore mostrasse per i giudici. Si comportava nei confronti dei suoi avversari come se fossero stati in tutto e per tutto suoi pari, li spiava, tendeva loro agguati, segretamente li screditava, qualche volta li ricopriva di ingiurie se li incontrava, e, se erano molto bravi, cercava perfino di corromperli… Molti si guadagnavano la sua amicizia o si attiravano il suo odio, secondo che erano stati prodighi o avari di lodi».

L’imperatore di Roma, il padrone del mondo, era afflitto da una mania di grandezza non pertinente al suo compito di governare l’impero più vasto dell’antichità. Sembra un bambino che vuole vincere a tutti i costi nei giochi fra coetanei, meschino denigratore del valore altrui (solo i grandi spiriti riconoscono l’altrui grandezza), intrigante, ricattatore, forte del suo potere per imporre le sue

scarse doti di artista.

Nerone vive di fama propria, anche se livida, e per questo si presta ad essere un prototipo eccezionale di un difetto che dilaga specie oggi, e proprio nel mondo artistico, soprattutto nella letteratura.

Pavese disse che ogni scrittore è una ‘primadonna’; la vanità è per molti la molla che porta a scrivere, in un campo in cui gli illusi hanno riempito da sempre le file degli aspiranti alla gloria cartacea.

Malattia antichissima, testimoniata da Orazio, Petronio, Giovenale… Oggi si stampano più libri di quelli che si leggono. In un ambito in cui tutti sono concorrenti, tutti produttori e pochi i consumatori, il mercato è fermo. In una lotta all’ultimo sangue, senza esclusione di colpi, si gioca la salvezza sui premi

letterari e su alcune reclamizzate rubriche televisive. E proprio lì scopre il complesso di Nerone: nel vincere tutti i premi e nel presenzialismo esasperante.

Se Nerone non fosse stato imperatore, certamente non avrebbe potuto vincere tutte le gare. Questa verità lapalissiana l’hanno capita quelli che soffrono del suo complesso: la libidine del primeggiare, applicando anche l’aurea massima di Machiavelli secondo cui il fine giustifica i mezzi. E sì: il mondo della letteratura somiglia più a una bisca elettorale che a un’assise di spiriti magni. E la tecnica neroniana ha fatto scuola. Viene a proposito una citazione di La Rochefoucauld: «Alcuni che godono della lode del mondo non hanno altro merito che i vizi utili alle relazioni sociali». Ogni scrittore aspirante alla fama, ormai sa che non deve perdere tempo a scrivere un bel libro, a macerarsi sul testo. L’ammonimento di Persio, secondo cui giova impallidire sulle notturne carte, fa ridere. Lo scrittore di successo, oggi usa altre armi: presenzialismo ad oltranza ovunque, per sentenziare su qualsiasi cosa, purché parli; deve diventare un personaggio, a costo di divenire maleducato e pettegolo, peggio di una lavandaia; deve accaparrarsi le leve del comando per poter gestire le sue aspirazioni; deve entrare nei traffici mondani e ragionare secondo la logica delle camarille, deve sapersi scegliere gli amici non secondo umanità e affinità elettive, ma secondo il dictat del «do ut des» (e così il novello Vincenzo Monti deve mettere a tacere umanità, sincerità, affetti, per ragionare freddamente come il principe di Machiavelli).

Ma il tempo usato a clientelizzare la scalata letteraria viene necessariamente tolto a quello che Manzoni usò per sciacquare i panni in Arno, a quello che Ariosto usò per rivedere il suo capolavoro, alla meditazione, insomma, allo studio (Verdi affermava che «il genio è sgobbare»).

Tanti acclamati “geni della carta” potrebbero vendere un frigorifero al Polo Nord e un termosifone nel deserto; e allora perché non usano le loro indiscutibili capacità di ‘arrivare’ magari dandosi al commercio, senza inquinare le acque della cultura e dell’estetica, da cui dipende l’educazione di un popolo? Perché concretare il complesso di Nerone in un campo così serio e alto come l’Arte? L’Arte non è vincere un premio o vendere un milione di copie (infatti, tutte le opere che hanno fatto la storia resistendo al tempo, sono state ignorate al loro uscire, tranne rare eccezioni fortuite; basti per tutte l’esempio della Divina Commedia, emarginata fino a Vico e fino al Romanticismo, tanto che nel 1600 questo divino capolavoro, in tutto il secolo, ha avuto solo tre edizioni, di contro alle migliaia di Giambattista Marino, definito dai ciechi contemporanei «il maggiore poeta di quanti mai nascessero tra toscani o tra latini, tra greci o tra siri, o tra gli arabi o tra caldei, o tra ebrei», e il vanitosissimo Marino ci credeva pure.

L’Arte è funzione vitale, sana, catartica, storica. Ma oggi vincono i non-libri e Foscolo è tenuto nell’ombra.

Vai un po’ a vedere, poi, che i complessati alla Nerone sono i primi a essere dimenticati appena perdono il potere, appena muoiono… Potrei fare dei nomi eclatanti, ma taccio per rispetto ai morti. La «giusta di glorie dispensiera» li cancella definitivamente. A che è servita, allora, tutta quella nevrosi di imbrogli, di soprusi, il peccato gravissimo del «falso giudizio»? A loro, nulla, perché la fama non sopravvive di un attimo alla loro illusione. Però ha ritardato il vero riconoscimento a opere utili, belle, educative, che avrebbero fatto crescere il progresso dello spirito. A questo punto mi viene in aiuto il grande Schopenhauer, con una riflessione sempre valida: «Chi merita la gloria, sia pure senza raggiungerla, possiede la cosa principale e ciò che gli manca è una cosa della quale può consolarsi con quella. Se invece l’ammirazione in se stessa fosse la cosa principale, la cosa ammirata non ne sarebbe degna. E ciò avviene realmente nel caso della gloria falsa, vale a dire immeritata. Di questa il suo possessore deve saziarsi, senza possedere in realtà la cosa di cui essa dovrebbe essere il sintomo, il semplice riflesso. Ma persino questa gloria gli viene amareggiata quando, nonostante ogni illusione che deriva dall’amor proprio, egli si sente le vertigini su quella vetta che non è fatta per lui; la paura lo prende di essere smascherato e giustamente umiliato, specie quando legge sulla fronte dei più savi già il giudizio dei posteri». Dunque, questa nevrosi di primeggiare e di rubare il successo, oltre ad essere una maniacale malattia alla Nerone, può anche essere il sintomo di una inconfessata paura: quella di non valere, e a questa terribile ansia per l’incertezza dell’immortalità (unica meta degli artisti) si reagisce con la follia di una sfrenata vanità, del successo a tutti i costi. Così, quanti ci fanno invidia, dovrebbero invece farci pietà. Ma chiudo, e lo faccio con un pensiero di D’Alambert, che descrive il tempio della gloria: «L’interno è tutto abitato da morti che in vita non c’erano dentro, e da alcuni viventi che quasi sempre, quando muoiono, vengono buttati fuori».

(Da ‘Il Giornale d’Italia’ del 5 novembre 1994)

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