Il “clandestino” del cinema italiano – 3
Dice giustamente Jean Paul Sartre, tra gli altri, che “lo stile di un autore è direttamente collegato alla sua concezione del mondo: la struttura delle frasi, dei paragrafi, l’uso e il posto del sostantivo, del verbo, e così via”. Anche in questo Bongioanni è un autore coerente, in quanto caratterizzato da tratti stilistici congeniali al suo ritratto umano, al suo temperamento. Una sintassi agile e vivace, ricca di strutture paratattiche e di periodi brevi, talora nominali. Una scrittura densa, asciutta, icastica, tagliente, spesso ironica, di taglio giornalistico e cinematografico: sempre interessante, sempre capace di tenere incollati alla… pagina – si direbbe, quasi, allo schermo.
Di Bongioanni andrebbero inoltre (anzi: soprattutto) riscoperti i film, tra cui – tanto per citare due titoli emblematici – vale qui ricordare “Tre per una rapina” e “Mia figlia”. Dello stesso parere Aldo Onorati, il quale, nel corso di una recente intervista sull’importanza di Bongioanni nella storia del cinema, ha così dichiarato: «Giuliana De Sio definisce Bongioanni un genio, ed ha ragione. Io ho seguito, prima da lontano e poi sempre più da vicino, la creatività di questo regista-scrittore. Egli ha avuto una fama estesa grazie a due popolari sceneggiati televisivi: “Una donna” (1977, inizio del colore in tv), 18 milioni di telespettatori, repliche a non finire, Giuliana De Sio protagonista; e “Giovanni da una madre all’altra”, del 1983. Il primo film, in sei puntate, era tratto dal libro omonimo di Sibilla Arelamo. Fu allora che mi appassionai all’arte di questo originalissimo regista, definito oggi “padre della fiction” (si consulti la Garzantina della televisione). Notai subito che era uno dei maestri del nostro cinema. Ne ebbi la conferma nel 1981 con “Mia figlia”, attrice principale Carlotta Wittig: affrontava, allora, cioè quasi trent’anni or sono, il problema oggi diffuso dell’anoressia! Un precursore dei tempi, Bongioanni. Quel film, che mi sono rivisto qualche giorno fa, azzeccato per caso in tv a tarda notte, mi ha dato il polso della grandezza di Bongioanni. Una pellicola asciutta, nuova nel fluire delle immagini, rapida nei dialoghi, originale nell’uso della m.d.p., impegnata nel sociale, di forte impatto poetico: tanto che alcuni hanno paragonato Bongioanni a De Sica. Io aggiungo che egli, sorprendentemente, si pone affianco ai maggiori registi della storia cinematografica: a De Sica per la nettezza del dettato e la forza realistica del flusso narrativo; a Ken Loach per alcune tematiche affrontate; e poi ai francesi, in primis a Truffaut. Io conoscevo Bongioanni dal 1964, per lo straordinario film “Tre per una rapina”, con interpreti tedeschi, italiani, spagnoli. Un’opera rivoluzionaria nella tecnica e nell’economia del quadro filmico. Il bianco e nero dà un’impronta chiaroscurale enorme, suggestiva, indimenticabile. Ma forse l’opera che ha dato più larga fama a Bongioanni è il succitato “Giovanni da una madre all’altra”, un telefilm su un’adozione non riuscita. Tre puntate con 26 milioni di telespettatori, su rete due e, a furore di giornali, replicato sulla prima rete. La casa di Biongioanni, bella e ampia, dove ultimamente sono stato con Giorgio Barberi Squarotti, padre della critica italiana moderna, è un pezzo di Cinecittà, affascinante come uno studio di posa. Gianni Bongioanni è tutto da riscoprire. È una nostra gloria del cinema, a cui siamo grati per le sue coraggiose intuizioni e le sue invenzioni di ordine filmico-narrativo».
(Fine)
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