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Il “clandestino” del cinema italiano (1ª parte)

Il “clandestino” del cinema italiano (1ª parte)
Marzo 02
12:19 2009

Gianni Bongioanni Gianni Bongioanni appartiene alla genia degli artisti liberi, poiché – forte del suo talento “illuministico”, ricco di creatività e lucida intelligenza – ha sempre voluto e saputo chiamarsi fuori dai compromessi, dai bassi giochi del mestiere, dagli intrallazzi delle consorterie. Affrontando con fierezza e coraggio i rischi legati e dovuti a questa volontaria posizione di outsider, di irregolare, di “clandestino”. Si pensi, per esempio, alla sua ferrea volontà di non derogare dalla “presa diretta” come garanzia di autenticità delle sequenze. O alla capacità, più volte dimostrata, di guidare magistralmente attori non professionisti. O di realizzare il film con quattro soldi, utilizzando al meglio le risorse disponibili e spesso, anzi, costruendole – attrezzature comprese – con le proprie mani. Bongioanni è, infatti, uno straordinario “homo faber”. La sua manualità è componente fondamentale del modo che ha di vedere e di creare: pensa toccando le cose. E questo ha sempre dato fondatezza e credibilità al suo cinema. Fotogramma dopo fotogramma: nulla è lasciato al caso. Quando pensa al film, Bongioanni lo immagina subito in termini tecnici, come un insieme di soluzioni ad altrettanti problemi da risolvere. Resta valido soltanto ciò che riesce a giustificarsi, alla luce di uno spietato e ininterrotto “redde rationem” cui sottopone i materiali fantastici e operativi di volta in volta elaborati, traducendo gli uni negli altri. E quanto questo sia vero si può capire affrontando l’artista Bongioanni sul piano della scrittura. Ha pubblicato due libri. Il più recente “Professione regista” (ora distribuito nelle edicole con il curioso titolo “E lei, decisa: io farei l’amore, ti va?”), godibilissima rievocazione, in chiave autobiografica, del variegato caravanserraglio che è stato ed è il mondo del cinema a Roma, attraversato in tutti gli aspetti, noti e meno noti, leciti e illeciti, ufficiali ed osceni. Ma anche e soprattutto lo stupendo esordio di qualche anno fa, “Qui Radiotevere”, su cui adesso intendo soffermarmi. Uno dei libri più belli che io abbia mai personalmente letto: dal quale sarebbe auspicabile una riduzione cinematografica, o almeno radiofonica. Di questa “storia di radio, d’amore e di morte” – straordinaria “tranche de vie” di un uomo che all’epoca dei fatti narrati, nel 1944, era un talentuoso ventenne di belle speranze – occorre subito notare l’emersione del fattore umano, attraverso la semantica dell’individuo (il suo sguardo, la sua percezione delle cose, la sua palpitante esperienza degli attimi vissuti, redatti sotto forma di diario) incastonata ed intrecciata, a doppio nodo, con la complessa filiera dei vettori storici concomitanti, entro cui prende corpo uno spaccato vivido e intensissimo, veritiero come non mai, di un momento cruciale per i destini dell’Italia e del mondo. Si legga, ad esempio, – in data 24 marzo ‘45, alle ore 2,30 di una notte insonne (per troppi pensieri) – la mirabile “sintesi”del processo involutivo della società italiana sotto il Regime: Si comincia a delegare altri a pensare invece di usare il cervello. Poi, via via, razioni di Minculpop, trasvolate atlantiche, Abissinia, tanta Radio Pompa (lessico famigliare per giornale radio), tanti film LUCE, tanta Mistica Fascista, tanto passo romano, e divise con aquile, teste di morto, e gerarchi che saltano nel cerchio di fuoco. Fino a quello là che non perde occasione di prime pietre, feste della trebbiatura, tagli di nastri, per martellare su destini imperiali. Non molti sanno vedere oltre i lustrini di utopie a buon mercato, calcolarne i costi in violenza, sangue, dolore. È così comodo diventare gregge, annullarsi nella grande mamma, l’Idea. È così che Gianni Bongioanni sa riprodurre, con maestria sapiente da régisseur, il colore e il sapore di quei giorni. Scrittore finissimo, capace di grande controllo del mezzo espressivo, nella resa dei dettagli, anche minimi (ma non per questo meno importanti), che sa raccogliere – con nitida precisione – già a livello di sguardo, di passato attualizzato, in memoria lucida e assoluta: estremamente attento alla ricchezza intrinseca di ogni sfumatura – al mistero del suo senso e al fascino del suo contributo. Immersi nella lettura di queste pagine, ne respiriamo lo “spirito del tempo”: ci sembra di vivere allora. Un libro che, in ciò, obbedisce a un intento programmatico, enunciato in più luoghi dallo stesso autore: quando ad esempio (7 febbraio ‘44) definisce doveroso “dare un’idea di chi siamo, lasciare ai posteri una traccia del nostro passaggio”; o quando (16 aprile ‘44) viene preso dalla consapevolezza che “andrebbe buttata giù ogni fesseria che passa per la testa”, ovvero dalla “netta sensazione che ogni cosa non scritta, anche la più misera, in un futuro più o meno lontano sarà altrettanto materiale da costruzione che verrà a mancare”; o quando ancora (20 ottobre ‘44) ribadisce l’intento di “restituire carica, sangue, carne, umori vitali alle vicende umane”. Sta naturalmente alla bravura dello scrittore restituirci questo tessuto microstorico di emozioni perdute. Quelle gelide sere di dicembre, armati di tutte le nostre speranze passioni energie ancora brade, senza bersaglio definito, vivevamo un’avventura ricca di bellezza, di magia, annuncio per la nostra fantasia bambina di infiniti avvenimenti positivi che ci avrebbero riempito la vita. Non sapevano di essere sull’orlo della catastrofe.

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