Il cinema degli anni Settanta – 4
Il cinema come sempre rispecchia la vita, spesso preconizzando gli eventi. Intensa come non mai la produzione in quei ribollenti anni Settanta, tesa a registrare con spietata chiarezza i moti in atto, con tutte le implicazioni che si trascinavano dietro.
Amore mio aiutami, di Alberto Sordi, mette in campo lo scompiglio in cui si dibatte la coppia in quegli anni di trasformazione, senza fase preparatoria sufficiente a far scavalcare certe barriere ritenute inamovibili. E’ la storia di una famiglia modello e di un uomo arrivato che nei discorsi da salotto sbandiera una mentalità aperta e moderna, disponibile a concessioni anche osé in campo sessuale nell’ipotesi di eventuali sbandate della consorte – una Monica Vitti rappresentante ideale della forza e fragilità della donna rispetto al sentimento d’amore – e che messo alla prova si scopre affetto da una gelosia ossessiva che lo travolge e stravolge; la sua reazione sarà del tutto inaspettata anche per lui, quando selvaggiamente picchierà la moglie fino a farle chiedere aiuto e pietà. Ma non sarà lei a perdere la partita, sarà invece l’uomo che alla fine soccomberà, incapace sia di comprendere che di lottare per riconquistare la moglie.
La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, ci porta dentro le fabbriche a vivere l’alienazione degli operai a contatto con le macchine e i loro ritmi infernali e fuori dai cancelli a scontrarsi con i padroni e con i sindacati che tra essi stringono patti di connivenza, e poi dentro le loro case dove portano tutta la frustrazione di uomo-macchina destinato a finire con la propria usura. Così come accade al protagonista Ludovico Massa detto Lulù, stakanovista convinto per procurarsi inutili beni di consumo, che quando prende coscienza della sua miserabile condizione si schiera con gli studenti e gli operai in lotta contro il ricatto del lavoro a cottimo ed è licenziato. Attraverso ciò che gli dirà un ex compagno di fabbrica, finito in manicomio a causa delle sue idee politiche, Lulù capisce che la sua alienazione si va trasformando in pazzia, ma a quel punto è ripreso in fabbrica e incatenato alla catena di montaggio, senza più forza di reazione, delira di un paradiso al di là di un muro e di una fitta nebbia, tutto per la classe operaia.
C’eravamo tanto amati, di Ettore Scola, racconta attraverso trent’anni di storia italiana le vicende di tre amici, ex partigiani uniti inizialmente dallo stesso ideale che poi prendono direzioni diverse e opposte, personaggi emblematici rappresentativi delle speranze perdute, ideali traditi, rivoluzioni mancate con cui già si fanno i conti, tra amarezza di fondo e umorismo graffiante. Memorabile la scena con Satta Flores e Stefania Sandrelli, lui intellettuale di sinistra e lei suicida mancata, che si confortano con un piatto di spaghetti e una bottiglia di vino: “Credevamo di cambiare il mondo, e invece il mondo ha cambiato noi”.
Non meno amaro il commento di Gassman – nelle vesti di un cinico arrivista – che parlando della loro generazione dirà: “Il futuro è passato e noi non ce ne siamo nemmeno accorti”.
Pane e cioccolata, di Franco Brusati, tratta dell’emigrazione italiana in Svizzera attraverso la storia di Nino Garofalo – interpretato da Manfredi, nella vita figlio di emigranti negli Stati Uniti – il quale lavora come cameriere con contratto a termine. Scoperto a orinare all’aperto, Nino perde il permesso di soggiorno e inizia a vivere da clandestino. Dopo varie peripezie si unisce a un gruppo di napoletani che vivono in clandestinità nella struttura in cui sgozzano e spennano polli di allevamento, di cui assumono posture e atteggiamenti, e Nino, disgustato, rinuncia alla loro ospitalità e riprende a vagabondare. Colpito dalla visione idilliaca di un gruppo di giovani che fanno il bagno nudi in un laghetto, si tinge di biondo i capelli nel tentativo di confondersi con gli svizzeri, ma quando la Nazionale italiana segna una rete in una partita contro l’Inghilterra, preso dall’entusiasmo, si fa riconoscere per quello che è e riceve l’ordine di rimpatrio. Nino sale in treno ma rivedendosi nei suoi connazionali, abbrutiti e rassegnati, scende e si ributta nell’avventura.
Padre padrone, dei Fratelli Taviani, tratto dal romanzo omonimo di Gavino Ledda, racconta la storia di un ragazzo sardo – lo stesso Gavino – costretto dal padre a lasciare la scuola solo dopo alcuni mesi di frequenza per andare a pascolare il gregge di famiglia. Remissivo nell’infanzia, terrorizzato dalle reazioni violente del padre autoritario e manesco, Gavino svilupperà crescendo una forte ribellione segnata da una volontà di ferro e una passione per gli studi che lo porterà a conseguire, attraverso dure scelte, un titolo di studio e la piena consapevolezza di sé e delle sue possibilità. Divenuto docente universitario, libero anche psicologicamente dal dominio dal padre, saprà comprendere e perdonare e proseguire sulla strada della sua crescita. Un film che fece molto discutere per l’accusa esplicita contro la durezza di certi rapporti in un ambiente arcaico che sembrava ricordo del passato ed era invece una realtà ancora presente e vicina, dove mettere in discussione le logiche tradizionali rappresentava un atto di sovversione e di attacco a un sistema calcificato nel tempo.
Cambiavano le condizioni del nostro Paese, noi cambiavamo, il cinema cambiava, registrando una realtà che diventava sempre più cruda e drammatica, e verso la fine degli anni ’70 quella che era stata la brillante commedia all’italiana prende a scivolare verso il boccaccesco privo di mordente, e velocemente verso la scurrilità gratuita, specchio ridanciano di un malcostume che serve da spunto per realizzare pellicole da quattro soldi da buttare sul mercato del cinema che langue, incalzato dal monopolio della televisione. Gli anni settanta si chiudono con La terrazza, di Ettore Scola, né commedia né dramma – e l’una e l’altro – che riflette il comportamento di tanti personaggi reali che nella Roma bene e radicale non sanno che pesci pigliare. Con Ecce Bombo di Nanni Moretti il cinema cambia faccia e linguaggio, perdendo le peculiarità distintive di un tempo senza ritorno e assumendo le caratteristiche della nuova società: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose”. (continua)
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