Il ciclismo ai tempi del Campionissimo. I ricordi di Augusto Lanciotti
Il ciclismo ai tempi del Campionissimo. I ricordi di Augusto Lanciotti
Coppì con l’accento sulla i
«Era l’anno 1945. Lavoravo a Ciampino da mastro Michele, fabbro forgiatore, il quale aveva un figlio prepotente che dovevo sopportare tutti i giorni. Si chiamava Mario. Quando mi vedeva in bicicletta, un piccolo catorcio, mi chiamava Coppì – con l’accento sulla i – per farmi arrabbiare, e poteva farlo perché lui era il figlio del principale.
Un giorno Mario disse che mi avrebbe staccato con una sola gamba, ed io dopo aver riflettuto un momento accettai la sfida. Stabilimmo il percorso: Ciampino-Via Appia Nuova e ritorno, costeggiando l’aeroporto. Eravamo due ragazzini di tredici anni, io non conoscevo le mie possibilità ed ero abbastanza preoccupato. Partimmo e mi misi subito in difesa, feci metà percorso dietro di lui e notai che non aveva un’andatura costante ma staccava in continuazione. Arrivati sull’Appia voltammo e mi accorsi che le sue condizioni erano peggiori delle mie. Era andato in debito di ossigeno a metà percorso, volendo stabilire l’andatura e distanziarmi, e sicuramente era stato colto dai crampi, come poi confermò all’arrivo. Allora passai in testa scaricando tutta la forza che mi era rimasta, arrivando vincitore a Ciampino.
Da quella piccola esperienza presi lezione: se Mario fosse stato meno arrogante e spavaldo avrebbe potuto vincere, ma aveva sprecato le sue energie e aveva perso anche moralmente. Mentre io avevo scoperto la mia predisposizione per quella disciplina e la mia voglia di competizione. Una passione che forse era nata con me, quando fin da piccolo sedevo su un pezzo di cartone e mi buttavo per i percorsi in pendenza, volendo “fare velocità”.
Bicicletta marca Quadraccia, sedicimila lire
Anno 1947. Volevo la bicicletta da corsa, i miei genitori non potevano acquistarla. Si stava costruendo casa e tutti gli sforzi e i sacrifici della famiglia andavano in quella direzione.
Un ragazzo di Morena vendeva una bicicletta da corsa di colore azzurro, con accessori di una certa qualità. Gli chiesi quanto costava e lui mi rispose che la vendeva a sedicimila lire, allora tanti soldi.
La sera lo dissi a mio padre e lui mi rispose che non era possibile comperarla. Ma il giorno dopo riprese il discorso e disse che in qualche modo si poteva fare, se avessi soddisfatto una sua richiesta. La richiesta era questa: “Se tu mi prometti che tutte le domeniche vai a messa, io ti prendo la bicicletta”.
Avevo quindici anni ma capii che quella richiesta non andava fatta e non andava accettata. Ma dopo un giorno di riflessione accettai comunque.
Diversi anni dopo venni a sapere che mio padre era andato da un suo amico che aveva un negozio di ferramenta a Ciampino, Di Ruzza, e aveva chiesto e ottenuto un prestito di sedicimila lire. Mio padre era affidabile.
Entro in possesso della bicicletta, marca Quadraccia con cambio campagnolo a due leve, con un solo platò, tre corone posteriori che potevano promuovere tre velocità diverse. Una bicicletta competitiva di quel periodo.
Il primo traguardo con la maglietta Toccaceli
Anno 1948. Avevo sedici anni, una gran voglia di realizzarmi e tanta passione per il ciclismo. Pensavo anche di fare carriera attraverso questo sport.
Come divisa avevo soltanto la maglietta da corsa, l’avevo acquistata da Toccaceli, ex professionista che aveva corso con una squadra ciclistica francese e dopo il suo periodo di corridore aveva aperto un negozio al Quadraro. Toccaceli era anche un buon meccanico, e oltre a fornire tutto l’occorrente per gruppi ciclistici, sistemava le biciclette di noi ragazzi. Con il passare degli anni il suo negozio divenne un punto di ritrovo per gli appassionati del ciclismo. La maglietta di Toccaceli era dei colori nazionali dalla Francia, molto bella, e quando la indossavo aumentava la voglia di fare e anche la forza.
Una mattina all’alba mi vesto da ciclista, preparo due sfilatini con la cicoria e li metto nella tasca della maglietta, riempio la borraccia d’acqua, prendo la mia Quadraccia e parto.
In genere non avevo un percorso stabilito, non conoscevo il territorio e i paesi, per me era tutto da scoprire. Ma avevo sotto controllo i chilometri e il tempo.
I miei percorsi, fra andata e ritorno, erano anche di duecento chilometri. Nessuno veniva con me perché – dicevano – partivo la mattina e tornavo la sera.
Quella mattina parto da Ciampino e arrivo a Finocchio, prendo la via Casilina e arrivo a Colonna, poi a Palestrina e proseguo per Capranica Prenestina, nei pressi di Monte Guadagnolo.
E fu lì che alzai le braccia al cielo con grande esultanza: avevo tagliato il mio primo traguardo. Un’emozione così forte che quasi scoppiai dentro la maglietta di Toccaceli, atleta di cuore e di cervello.
Prima gara da dilettante a Ronciglione
Anno 1950, la mia prima gara da dilettante. Avevo il tesserino da corridore che mi era stato rilasciato dopo le visite mediche specifiche. La mia società era la “Libertas” di Ciampino, gli indumenti erano quelli di allora, calzoncini neri con scritte bianche, maglietta giallo/rosso con la scritta della società. Un vestiario piuttosto scadente, ma indossarlo mi faceva sentire diverso, mi sentivo atleta e nella mia mente c’erano dei sogni. Mi preparai accuratamente – capelli corti, barba e gambe ben rasate, aspetto ordinato – e il mio desiderio era di fare bene, di ottenere risultati buoni anche per la mia società di appartenenza.
La gara si svolgeva a Ronciglione. Arrivai a Roma in bicicletta e a piazza Esedra trovai il pullman messo a disposizione dei corridori della provincia.
Eravamo una quindicina, c’erano gruppi di due o tre corridori, io ero solo a rappresentare la mia società. Caricate le biciclette sul portabagagli si partì per Ronciglione, in provincia di Viterbo, distante una sessantina di chilometri.
Sedevo accanto a un ragazzo silenzioso, anche lui da solo. I corridori senza compagni di squadra sono svantaggiati in corsa, devono fare tutto da soli, come l’artigiano senza aiutante. A Ronciglione trovammo in piazza il punto di ritrovo e si fecero le iscrizioni. Passò una vettura che lanciava volantini per tutto il paese con l’informazione della gara, chi l’aveva sponsorizzata, il percorso, i nomi dei partecipanti. Fra questi c’erano anche alcuni dilettanti che passarono poi professionisti. Sul volantino c’era scritto anche il mio nome e mi sentii importante, per un attimo pensai anche a una mia realizzazione attraverso il ciclismo.
Tutto il percorso lo feci con il ragazzo con cui avevo stretto amicizia sul pullman, che si trovava nelle mie stesse condizioni e cioè solo.
La corsa non andò bene. In una discesa mi saltò la catena dal platò, dovetti scendere e sistemarla ma non riuscii a rientrare nel gruppo. Se avessi avuto compagni di squadra, questo sicuramente non sarebbe accaduto.
A gara conclusa, il mio compagno disse: “Adesso andiamo a mangiare”. Io non risposi, camminando troviamo una trattoria e lui entra, io rimango fuori. Non avevo un centesimo in tasca, io volevo gareggiare, avevo solo la passione del ciclismo e nient’altro. Appena si rese conto della situazione il mio compagno uscì, mi prese per mano come si fa con un bambino smarrito, mi fece sedere al tavolo e mi disse: “Io dispongo di poco ma lo dividiamo in due”.
Quel ragazzo non l’ho più rivisto, ma a tanti anni di distanza lo ricordo sempre con gratitudine, un ragazzo tranquillo con tanta voglia di emergere, un ragazzo buono che sicuramente dalla vita avrà ricevuto cose buone. Grazie, amico mio.
La sera ci ritrovammo in piazza per la partenza, e la notizia fu che il pullman a nostra disposizione era di solo andata. Partii in biciletta con un altro ragazzo di Roma, tanti chilometri al buio con rischi elevati, con tanta ma tanta fatica per tornare a casa. Arrivai a casa a mezzanotte, non ricordo se ci furono rimproveri, e forse nemmeno li avrei sentiti per la stanchezza».
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