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Il carcere che ancora non c’è

Aprile 22
22:00 2010

Del carcere si parla per levarci di torno un fastidio, per non rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, un messaggio annichilente che impedisce di intervenire. Il detenuto non è un numero, invece la realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità. Risocializzare, reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali da seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare l’inadeguatezza al dettato Costituzionale, per l’impossibilità di rendere fattivo l’intervento rieducativo, non usare questi strumenti e di contro incancrenire la convivenza, equivale a dichiarare fallito l’ideale della promozione umana. Basterebbe osservare volti e mani di detenuti in qualche carcere, per rendersi conto del livello di abbrutimento raggiunto, di quanto questa situazione di indifferenza e solitudine imposte, di mancata applicazione di quella famosa declinazione a nome rieducazione, risulti deleteria per la persona ristretta. Un carcere che non ha più al suo interno spinta a rinnovarsi, un carcere popolato di uomini vestiti di paura e stanchezza, con la sola aspettativa di scontare in fretta la propria condanna, e ciò senza alcuna consapevolezza del presente, senza vista prospettica, senza figura del futuro. In una sola parola senza speranza.
Chi conosce poco del carcere, di questa condizione inumana, dove è vietato persino sentirsi utili, responsabili, con delle prospettive, ebbene a costui sfugge il senso di questo arbitrio. Forse qualcuno pensa che inchiodare il detenuto in uno stato di inazione e alienazione, comporti la fatica minore. Nuovamente è un inganno, perché quel detenuto non è in una situazione di attesa dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, è l’esatto contrario: quel detenuto non attende domani, egli è fermo a ieri, a un passato riprodotto e mascherato, a tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile bloccare il tempo, come se delirare fosse identico a ben sperare.
Se riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, fin’anche del detenuto. Ho l’impressione che il carcere italiano sia un involucro premeditatamente chiuso alle idee, ai cambiamenti, a tutt’oggi non lo si riesce a piegare a nessuna utilità sociale, anzi rimane il maggior riproduttore di sub-cultura: entrano uomini ed escono bambini, pacchi bomba senza fissa dimora. Se non sarà inteso come ripristino di un senso di giustizia e di possibilità a riconquistare la propria dignità, esso sfibrerà gli uomini ristretti rendendoli insensibili alla necessità di ricucire quello strappo dolente causato con il proprio comportamento.

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