Il cacciatore di aquiloni, di Khaled Hosseini
C’è un detto afgano: ‘Metti in una stanza un gruppo di afgani e vedrai che molti di loro scopriranno di essere parenti’. E questo è un po’quello che è successo anche a Amir (il protagonista del romanzo)’ solo molto tardi, in seguito ad una circostanza apprende che l’amico Hassan, di etnia hazara, con cui giocava da piccolo e che tutto avrebbe fatto per lui, era in realtà suo fratello, nato dall’unione del padre con la serva. È come se questa verità, rivelatagli quando ormai suo fratello è stato ucciso dai talebani, segni in qualche modo per Amir il passaggio alla ‘virilità’. Infatti Amir, il divoratore di libri e scrittore già in tenera età, il bambino timido e codardo ma dalla fervida fantasia, sempre alla ricerca dell’approvazione del padre, anche quando in età adulta si sposa e diviene scrittore, è come se aspettasse quell’evento che deve ‘svezzarlo’. Dopo essersi separato dal fratello hazaro (quando ancora non sapeva fosse suo fratello), il quale era rimasto in Afghanistan durante il regime dei talebani, Amir vive in America, ha una casa e un lavoro ma non può avere figli. La sterilità è indice di questa mancanza di virilità: il coraggio che non ha avuto da piccolo nel difendere suo fratello da uno stupro. Solo quando tornerà in Afghanistan per riscattarsi da questa colpa, alla ricerca del figlio di suo fratello, e lotterà per trovarlo, gli verrà ridonata la sua ‘virilità’ e un figlio: suo nipote, figlio di suo fratello. E proprio durante questo viaggio per la prima volta apprende delle informazioni su sua madre, che non ha mai visto perché morì quando lui nacque. Dunque il viaggio in Afghanistan, per redimersi da quel che lui sente come una colpa, oltre ad un figlio ed al coraggio, gli dona anche qualche conoscenza su sua madre, la donna di cui ha sempre cercato qualcosa che potesse raccontargliela. È come se Amir fosse vissuto da sempre in una fiaba, nel suo mondo di fantasie, nato anche dall’esigenza di ricostruire l’immagine di sua madre (leggeva i libri che le erano appartenuti). Solo recandosi a Kabul dopo alcuni anni, in un paese ormai distrutto dalla guerra, in un mondo di fantasmi, è riuscito a scacciare i suoi fantasmi. E il fatto che riesca finalmente a ritrovare qualche immagine di sua madre, attraverso le parole di un mendicante, è come se per la prima volta uscisse veramente dall’oscurità del suo ventre e la vedesse (c’è chi sostiene che nella vita tutto quel che è necessario fare è imparare a nascere).
Quello di Amir in realtà non è tanto il viaggio per la redenzione ma il viaggio nell’infanzia distrutta, per recuperarla o meglio per ‘ricostruirla’ (non a caso suo padre era direttore di un orfanotrofio). ‘Non dimenticare che allora eri solo un ragazzino, un ragazzino con dei problemi. Eri troppo duro con te stesso e lo sei ancora. Ma ti prego di riflettere su questo: un uomo privo di coscienza e di bontà non soffre’ dice Rahim Khan ad Amir, Rahim Khan è l’amico di suo padre, l’uomo che lo ha chiamato per tornare in Afghanistan. Amir soffre per la sua colpa, e la sua sofferenza già in parte lo ripaga. Il vero scopo del viaggio non è discolparsi ma ‘salvare’ un’infanzia distrutta. Un’altra delle tante. L’infanzia di suo fratello Hassan era stata spezzata da un evento, accaduto soprattutto a causa dell’etnia hazara a cui apparteneva Hassan. La guerra ha distrutto altre infanzie e Amir compie l’atto disperato di volerne salvare una. E proprio quando sta per restituirle un’esistenza diversa, proprio in quel momento il bambino cede all’insopportabilità della sua situazione e tenta di uccidersi. Questo fatto ci aiuta a capire che Amir sta compiendo un’impresa impossibile: un bambino distrutto psicologicamente e fisicamente dalla guerra non potrà mettere da parte il suo passato, ma tenterà di eliminarlo a tutti i costi. Il viaggio in America con una nuova famiglia appare così, più che un sogno, un romanzo ancora non scritto e che non si può scrivere’ perché ‘l’America’ non arriva per i bambini dell’Afghanistan: in un paese dove il regime talebano e neanche la guerra lo vieti rimarrebbe forse per loro solo il gioco degli aquiloni, ma non una ‘nuova vita’. È con questa immagine che si chiude il romanzo: il gioco degli aquiloni. L’infanzia è distrutta, Amir tenta di salvarla, ma salva solo l’accenno di un sorriso (ed è già tanto), il sorriso del nipote alla vista degli aquiloni. Un sorriso accennato che pare a lui esteso come l’intera valle del Panshir. È la speranza a farglielo vedere così? Oppure è il ricordo di quando correva in un Afghanistan non ancora distrutto, che vorrebbe ‘ricostruire’ come ricostruirebbe il sorriso del piccolo? (Suo fratello era nato con il labbro leporino e non poteva sorridere e adesso suo figlio non riesce anche lui a sorridere né a parlare). L’aquilone è l’infanzia persa nel vento che vola lontano, sopra le teste dei bambini: un’infanzia perduta e fragile che vorrebbe correre con loro.
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