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Il 9° meeting nazionale di Emergency

Il 9° meeting nazionale di Emergency
Ottobre 16
10:20 2010

Gino StradaSiamo sulla “Via della povertà” o verso la “Strada dell’Eguaglianza”? Noi, la Strada di Emergency e dell’Eguaglianza.

10-09-2010

(Sono in treno verso Firenze per partecipare al meeting nazionale di Emergency. Vicino a me è seduto un imprenditore che quando vede che sto sfogliando il Manifesto inizia a parlare dicendomi che in Italia le cose funzionano; che l’Italia è un paese ricco altrimenti non sarebbe all’interno del G8; che è il settimo paese industriale più ricco del mondo e che le cose nel nostro paese vanno così perché come tra gli animali c’è il più forte che prevale sul più debole così dev’essere anche nella società. Dalle sue parole si deduce che non c’è differenza tra mondo animale e umano e che va tutto bene. Ma se quell’imprenditore potesse leggere quest’articolo… forse comincerebbe a vedere, volendolo, come vanno realmente le cose).

Cecilia Strada apre il meeting nazionale di Emergency. Questa volta per la commemorazione alla madre e madre di Emergency non è qui a portar via, per ricordo, qualche foglia dalla chioma rossa dell’albero dedicato a Teresa Sarti, eroe di pace, che saluta Firenze, perché la vive e la ricorda nella sua esperienza attuale a sua volta di madre. Anche se forse pure per questo la mancanza si sente di più… la fa sentire la vicinanza di un’esperienza che si condivide a distanza. Cecilia parla dei progetti realizzati dall’associazione nel 2010 come il centro pediatrico Nyala realizzato in Sudan, e quelli futuri come il progetto di un centro pediatrico nella Repubblica Democratica del Congo; delle difficoltà incontrate durante gli ultimi anni di lavoro dell’associazione e della forza che Emergency ha tratto anche da esse, affrontandole e superandole; perché se un’associazione non rimane nell’indifferenza e suscita scandalo, vuol dire che effettivamente è di ostacolo ad una politica che non guarda “al di là del suo naso”. Emergency non si contraddistingue solo per questa sua “irriducibilità” (che è caratteristica anche di Gino Strada), dice Cecilia, ma anche per il fatto che non fa parte di quelle ong, purtroppo presenti, che non si impegnano per un processo di pace ma che, invece di aderire a quei principi che dovrebbero contraddistinguere un’organizzazione non governativa e che esistono in un regolamento scritto, si mascherano da organizzazione non governativa. A parlare più nei dettagli delle ultime vicende che hanno visto Emergency protagonista della politica internazionale più che di quella nazionale, (perché inizialmente è stato purtroppo così, visto che nessun politico ha risposto tempestivamente all’emergenza del rapimento dei tre operatori di Emergency in Afganistan), è Gino Strada che ricorda come Emergency ha dovuto subire degli attacchi, pesanti e infondati, provenienti dal suo stesso paese (vedi “la Repubblica” che ha scritto di Gino come di un “delinquente”, o i documenti della CIA resi pubblici… – ma per i delinquenti veri usano lo stesso linguaggio? -), quando invece l’apprezzamento che riceve l’associazione è di gran lunga maggiore e lo riceve da ogni parte del mondo e non solo nei paesi in cui opera. «Questa vicenda ci ha fatto riflettere -dice Gino – ci ha fatto sentire la responsabilità e ci ha fatto porre delle domande». Così Emergency ha riposto nei fatti ad un fatto tanto grave, a tali accuse: con la manifestazione organizzata a Roma, con la sua operatività, e con un “manifesto”, letto per la prima volta al meeting nazionale, che vuole dire a tutti il senso di una vera democrazia: in cui il potere del popolo non consiste nel recarsi alle urne (se fosse così, anche poteri democraticamente eletti e che non sono tali potrebbero definirsi democrazie!) ma nell’essere fautori del proprio destino e del destino del proprio paese, attraverso le possibilità effettive che vengono offerte alle singole persone per essere “liberi e libere cittadini e cittadine” nel rispetto di tutti: un’istruzione degna per tutti, cure per tutti, diritti per tutti… Un manifesto in difesa delle fasce più deboli della società troppo spesso o quasi sempre dimenticate. In seguito delle offensive dichiarazioni fatte dall’assessore alla scuola Laura Marsilio questo manifesto acquista ancora più valore, ed è uno dei pochi atti a cui un cittadino che veramente vuole opporsi alle idiozie di alcuni politici e del governo può far riferimento. (Mi ricorda quando scoppiò la guerra in Afghanistan. In quel momento la maggior parte degli italiani era contro la guerra e la partecipazione dell’Italia alla guerra, ed anche in quell’occasione l’unico modo per dire “no” a tale intervento sono state le migliaia di firme raccolte da Emergency).

Qui di seguito riporto il manifesto con l’invito per chi vuole di appenderlo nei luoghi di lavoro o in casa -come ha fatto già un volontario di Emergency – per diffondere questo messaggio il più possibile e contemporaneamente attuarlo e farlo attuare, in modo che possiamo riappropriarci delle cose in cui crediamo e delle nostre vite.

Il mondo che vogliamo.

Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza, dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica.

Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse.

Vogliamo un mondo in cui i governi garantiscano l’eguaglianza di base di tutti i membri della società, il diritto a cure mediche di elevata qualità e gratuite, il diritto a una istruzione pubblica che sviluppi la persona umana e ne arricchisca le conoscenze, il diritto a una libera informazione.

Nel nostro Paese assistiamo invece, da molti anni, alla progressiva e sistematica demolizione di ogni principio di convivenza civile. Una gravissima deriva di barbarie è davanti ai nostri occhi.

In nome delle “alleanze internazionali”, la classe politica italiana ha scelto la guerra e l’aggressione di altri Paesi.


In nome della “libertà”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro i propri cittadini costruendo un sistema di privilegi, basato sull’esclusione e sulla discriminazione, un sistema di arrogante prevaricazione, di ordinaria corruzione.


In nome della “sicurezza”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo.

È questa una democrazia? Solo perché include tecniche elettorali di rappresentatività? Basta che in un Paese si voti perché lo si possa definire “democratico”?

Noi consideriamo democratico un sistema politico che lavori per il bene comune privilegiando nel proprio agire i bisogni dei meno abbienti e dei gruppi sociali più deboli, per migliorarne le condizioni di vita, perché si possa essere una società di cittadini.

È questo il mondo che vogliamo. Per noi, per tutti noi. Un mondo di eguaglianza.

Il mondo che vogliamo non è un altro in un altro universo ma è questo e va difeso da chi vuole la divisione degli uomini attraverso guerre e discriminazione. Gino Strada vuole farci in questo modo riflettere sulla parola “democrazia” e su quei principi che vogliamo la costituiscano per poterla definire tale, altrimenti la si dovrebbe chiamare in un altro modo… (e tante volte la nostra forma di governo attuale è stata chiamata, infatti, “dittatura” dei più forti sui più deboli, dei ricchi sui meno abbienti, di… ma siamo in una giungla o una cosidetta “civiltà”?). “Noi consideriamo democratico un sistema in cui si va incontro ai bisognosi” conclude Gino Strada, e ci racconta di come le parole “Libertà, fraternità ed eguaglianza” le ha trovate scritte sulla porta dei gabinetti di un importante edificio in Svezia! Più di tutte è la parola “eguaglianza” ad essere finita veramente al gabinetto (non quello dei ministri però) nella nostra società, ce ne possiamo accorgere anche guardandoci intorno, nella realtà quotidiana di tutti i giorni. Ed è proprio a quest’ultima domanda: “Eguaglianza è una virtù oggi?” che risponde Marco Revelli, docente universitario presso la Facoltà di Scienze Politiche all’Università del Piemonte Orientale (Alessandria), economista e sociologo. Il professore ci rammenta di come oggi anche i politici di sinistra rifiutano l’uguaglianza in quanto ideale. E a darci testimonianza di ciò sono pure le statistiche sull’indice di povertà mondiale che ci legge Revelli: più di tre miliardi di persone nel mondo sono denutrite, e vivono in una condizione di povertà grave che le priva di un accesso a risorse fondamentali come l’acqua; due miliardi di persone non hanno accesso ai bisogni base (cure, istruzione etc)! E questa povertà uccide: sarebbero sedicimila gli americani che ogni settimana muoiono a causa della povertà! E si parla di quell’America che va a “esportare democrazia”. Democrazia? I dati riportati da Marco Revelli si trovano nel libro “Povertà mondiale e diritti umani” di Thomas Pogge (autorevole filosofo che indica come riformare l’ordine globale per combattere la povertà e sostenere i diritti umani) e ci fanno riflettere sul perché questo tipo di democrazia nel nostro paese non contribuisce a migliorare la situazione di “emergenza: povertà”, né qui da noi né all’estero. Ciò avviene perché il principio di eguaglianza, non è la sua virtù e perché di questo “mondo di povertà” in cui la povertà è così grande non se ne parla, essendo “distante” dai privilegiati. Ma è una distanza più mentale che fisica, infatti Cecilia Strada racconta di come nel quartiere di Milano dove vive, prima alla mensa dei poveri ci andavano i barboni e gli immigrati, adesso ci vanno anche i lavoratori, cittadini milanesi in cravatta. “Se ci si adoperasse per un equa distribuzione delle ricchezze si potrebbe affrontare il problema della povertà, ma se molti stati nel ’96 hanno cercato di farlo l’occidente non è annoverabile tra questi, perché?”. Si domanda Marco Revelli. Una domanda che trova una risposta che non si può giustificare: indifferenza, individualismo etc i mali della nostra società. Marco Revelli passa poi a parlare della vicenda di Pomigliano facendo riferimento ad un articolo pubblicato da Guido Ortona, professore presso la Facoltà di Scienze Politiche all’Università del Piemonte Orientale (Alessandria). Nell’articolo di Ortona (“Come sottrarre il lavoro ai ricatti”) si legge: “Il caso Pomigliano insegna che vanno riequilibrati i rapporti di forza a vantaggio del lavoro. Il costo di 100 lavoratori è circa tre milioni di euro all’anno, cioè meno di un terzo di quanto hanno ricevuto nel 2009 Marchionne e Montezemolo messi insieme. Se Montezemolo si accontentasse di 10.000 euro al giorno, e Marchionne di 9100, si potrebbe dare lavoro a 100 operai in più. Mi pare che coloro che sostengono che i lavoratori sono vittime dell’ideologia, mentre il management attua buone scelte economiche, non abbiano le idee chiare su cosa sono l’ideologia e l’economia.”(Fonte: Sbilanciamoci Info). Anche per il docente Ortona la ridistribuzione del reddito è una cosa che non ha senso. Il professore Marco Revelli in merito alla questione di Pomigliano porta alla nostra attenzione anche un articolo su “Repubblica” in cui Gad Lerner scrive: “Il primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11490 volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco. Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il 63,3% dell’azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l’anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l’appunto a 11490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione, portando a casa circa 11000 euro lordi. In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato nel 2009 due volte e più il monte salari dell’intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese. Nello stesso periodo, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di attribuirgli per il 2009, mentre l’attività svolta dal manager italo-canadese negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito. Credo non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da queste nude cifre. Da una ventina d’anni la parola egualitarismo è proibita nel dibattito pubblico, demonizzata alla stregua di un’ideologia totalitaria. Ma nel frattempo imponenti quote della ricchezza nazionale sono state dirottate dal lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, esasperando una disuguaglianza di reddito senza precedenti storici.” Constatando questa realtà, questo scandalo, possiamo rifiutare la questione dell’eguaglianza? Possiamo permetterci di farne a meno? Domanda retorica a cui segue una risposta non detta ma urlata: “No!”. Ma Revelli ci ricorda come attualmente viene invece rifiutata: in un sistema come il nostro la corsa non è più verso l’eguagliamento e spesso succede che i “penultimi” spingono più in basso gli “ultimi”, in questo modo si fa strada l’imbarbarimento: gli abitanti della periferia vanno contro i rom etc. “Ci vuole un nuovo 14 luglio, una nuova rivolta dal basso”. La spiegazione della diseguaglianza crescente negli ultimi decenni la si trova, almeno in parte, guardando al progresso tecnologico e a quanti hanno la possibilità di accedervi. Per come è distribuito il controllo sui mezzi tecnologici i “poveri” non partecipano proporzionalmente alla crescita mondiale e quindi aumenta la differenza di reddito (nel 1960 era in un rapporto di 30 a 1, poi è passata a 60 a 1 nel 1990, e poi a 70 a 1, crescendo sempre di più) ed è assolutamente vero, come scrive Gad Lerner, che

oggi c’è una differenza tra ricchi e poveri ancora più profonda, come mai c’è stata prima. In questo mondo, conclude il professore citando Bauman, non solo sono aumentate le distanze tra le persone ma anche tra le persone e il luogo in cui esse vivono perché la gente non è più in grado di appropriarsi della realtà circostante: aumentando la velocità prodotta dalla tecnologia e da questo nostro stile di vita, aumenta l’alienazione verso una realtà che sfugge al controllo.

 

11-09-2010

 

Pronti, partenza…via!

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Emergency, Programma Italia, curare, informare, accompagnare. Un modo fondamentale per comprendere il grado di civilizzazione di un paese è guardare al tipo di ospitalità che offre allo straniero…

E infine il Progetto Anme, non ci dimentichiamo dell’Africa.
“Il modo più semplice evidente e produttivo di fare politica: andare incontro ai bisogni”. (Gino Strada)

 

In questa giornata vengono illustrate le nuove possibilità di intervento di Emergency in Italia, alcune delle quali sono già in via di attuazione. Il Programma Italia comincia a Palermo dove nell’aprile del 2006 Emergency ha aperto un Poliambulatorio per garantire assistenza sanitaria gratuita ai migranti (con o senza permesso di soggiorno) e alle persone residenti in stato di bisogno. Fatta eccezione per alcune figure sanitarie e non sanitarie, il personale medico, paramedico e amministrativo del centro opera a titolo volontario e gratuito. (Il progetto è stato realizzato con la collaborazione della direzione generale dell’Azienda unità sanitaria locale di Palermo, che ha ristrutturato e messo a disposizione i locali per la conduzione delle attività.)

Adesso dopo Palermo è la volta di Marghera e in futuro, forse, ci saranno Calabria (in uno stabile sequestrato alla ‘ndrangheta, qui si vorrebbe realizzare una struttura non solo per andare incontro alle necessità degli immigrati), Puglia, Torino e Firenze. Ma la grande novità di quest’anno la vediamo parcheggiata là fuori il Palaffari di Firenze, dove si tiene il convegno… sono i due fantastici polibus! Si tratta di ambulatori mobili che – anche grazie al sostegno di Fondazione Smemoranda – porteranno medicine di base e servizi sanitari dove ce n’è bisogno e quindi, come dichiara Cecilia Strada in un’intervista su Peace Reporter: “Nei campi nomadi o nei quartieri in cui non arriva assistenza sanitaria gratuita. Ciò non vuol dire che i polibus hanno la pretesa di sostituire il sistema sanitario vigente ma vogliono al contrario ricoprire quelle aree in cui questo non arriva a tutti.” I polibus cominceranno a circolare in tutt’Italia! Quest’azione è stata necessaria perché purtroppo anche in Italia esistono ambiti in cui gravi e quotidiane violazioni dei diritti umani generano bisogni che non ricevono soddisfazione. Per questo e per “curare il nostro paese prima di tutto” intervenendo là dove ci sono mancanze a livello sanitario, Emergency ha attuato il “Programma Italia”, portando il suo aiuto nell’ambito dell’area “immigrazione” e del sistema penitenziario (concluso nel 2007).

Il poliambulatorio di Palermo funziona. Non è solo un luogo di medicina, ma anche d’informazione, perché quelli a cui si rivolge, soprattutto gli immigrati senza diritti (cosiddetti “clandestini”), hanno bisogno di questo: di accompagnamento.“Quindi si ascolta lo straniero, si capisce quali sono i problemi, e lo si accompagna nei meandri dei servizi, si fa educazione civica. Tutti elementi che non sono considerati rilevanti dalla Pubblica Amministrazione, anche perché costano.” dice Pietro Parrino, responsabile del servizio umanitario di Emergency. Un immigrato irregolare ha come unica possibilità il pronto soccorso, non gli è garantito il medico di base o un servizio ambulatoriale, ma solo l’emergenza (al contrario in Francia gli stranieri hanno un cartellino per il rimborso). “C’è una logica di privilegio – aggiunge Parrino -. Si accompagna al fatto che ai cittadini italiani viene spiegato che l’unico modo per garantire i loro diritti è tagliare i costi e quindi non curare quelli che sono qui e ‘non dovrebbero esserci’. Noi vogliamo invece essere presenti per garantire un diritto di tutti e dimostrare il contrario”. Oltre all’accompagnamento, un’altra componente base del Progetto Italia è l’utilizzo dei volontari in maniera intelligente, chiedendogli di fare quello che già fanno nel lavoro: regalando alcune ore della loro professionalità. E poi c’è il rapporto con la Pubblica Amministrazione: “Si vuole creare una struttura che sia complementare al servizio sanitario nazionale, che possa riempire i vuoti con la massima chiarezza. Per cui crediamo sia utile sederci a un tavolo con le amministrazioni e condividere la disponibilità a crescere reciprocamente.” Non sempre ciò avviene facilmente come è avvenuto a Venezia, in cui nel giro di un anno è stato possibile l’apertura del poliambulatorio di Marghera (il 9 agosto c’è stata la firma per dare in concessione l’edificio a Emergency per 9 anni e Emergency si è impegnata nel gestire l’ospedale e restaurarlo), dall’altro lato infatti c’è per esempio il caso di Torino, dove era stato identificato un posto perfetto, con un grande giardino, ma dopo una serie di inspiegabili riunioni si è capito che il capo circoscrizione aveva un problema: “Intorno al giardino ci sono palazzi alti e si vede dentro. Avevano paura che la gente vedesse gli immigrati”. A Torino si vorrebbero realizzare interventi non sanitari ma socio-sanitari nel senso che si spiega agli stranieri come funzionano le cure. A Milano invece, il Comune ha risposto a Cecilia Strada che “c’è già l’opera di San Francesco”, cioè quattro ambulatori per tutta la regione che è la regione italiano in cui vivono più immigrati in assoluto rispetto alle altre! A Marghera poi subentreranno delle figure nuove negli ospedali di Emergency e cioè dei mediatori culturali per riuscire a dialogare con le comunità del Bangladesh e dei Nigeriani.“La continuità dell’assistenza ci aiuterà a entrare in confidenza. I mediatori non devono solo tradurre, ma ascoltare, capire i problemi e poi ridiscuterne con gli altri operatori per trovare soluzioni”. Il traduttore quindi avrà un ruolo diverso rispetto a quello del Poliambulatorio di Palermo che rimane esterno al mondo che sta traducendo. In particolare si riuscirà così ad entrare in contatto con le donne nigeriane che non partecipano ai corsi di italiano.

Gli ambulatori in Italia stanno nascendo perché le persone possano accedere allo stesso trattamento. Queste sono le basi della fondazione del Progetto Italia. (A conclusione del convegno sono intervenuti: Mara Rumiz, interprete in Veneto; Gloria che si occuperà della gestione del centro di Marghera; Guido e Mimmo che hanno reso possibile questo progetto.)

La sera, presso il Palamandela, Fabio Fazio ha intervistato Antonio Tabucchi, scrittore, Andrea Camilleri, scrittore, che è intervenuto per via telefonica, Vauro, Gino Strada e Alberto Saviano. Hanno suonato Stefano Bollani e Samuele Bersani. (Video presenti sul sito www.peacereporter.net). In particolare nell’intervista ad Antonio Tabucchi si parla della mancanza oggi dei principi costituenti lo Stato cosiddetto moderno, e quindi dell’importanza assoluta di questo manifesto. Lella Costa afferma che il manifesto è una traduzione in chiave contemporanea di alcuni principi espressi anche nella dichiarazione dei diritti dell’uomo… “Non è nuovo –dice- ed è un po’ scoraggiante che si debbano ripetere principi che dovrebbero già essere fatti nostri! Ma la scienza ci ha dimostrato che tutto quello che era utopico si è realizzato e quindi anche quel mondo questo mondo che vogliamo, pur se non è ancora, sarà possibile se lo vogliamo davvero.” Teresa ne sarebbe stata fiera come lo siamo noi tutti d’altra parte, lo avrebbe appeso nelle scuole quel manifesto. Gino non ci dice cosa farne, come attuarlo, siamo noi poi a doverlo “manifestare a nostro modo, nei fatti e nelle parole” volenterosamente e volontariamente certo, perché al cuore non si comanda e per chi ce lo mette come lui, come altri e altre, ma basta seguirlo.

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Ma come c’è un Programma Italia non potrebbe mancarne uno per il grande continente da dove secondo i più recenti studi di antropologia, proviene l’umanità, l’Africa, si chiama progetto Anme. Sarebbero dieci i centri d’eccellenza che Emergency vorrebbe costruire nel continente africano realizzando il progetto Anme (African Network of Medical Excellence) lanciato con un appello congiunto firmato a Karthoum, in Sudan, da undici Paesi per una “Rete sanitaria d’eccellenza in Africa”. Il progetto nasce per affermare il semplice diritto di tutti gli esseri umani ad essere curati al passo con i progressi della scienza medica. “Questo progetto vuole favorire lo sviluppo della medicina in quel continente”. Basta pensare alla mortalità infantile: se ogni anno nel mondo muoiono dieci milioni di bambini nei primi cinque anni di vita, la metà è in Africa. E se pensiamo che come dice Gino che “due sono i fattori che hanno ridotto la mortalità infantile in Europa dall’ottocento ad oggi, uno è l’igiene e la formazione delle levatrici, l’altro è lo sviluppo della medicina e quello che in Africa è mancato è il secondo fattore”allora capiamo l’urgenza e la piena coerenza del progetto. “In Africa ci sono le risorse umane, scientifiche ed economiche per realizzare tutto questo” dice il fondatore di Emergency“non mancano i cervelli e spesso persone preparate al meglio sono costrette ad operare in condizioni di privazione estrema. Il progetto di Emergency in Africa rientra nei principi espressi in un altro manifesto, elaborato nel 2008 a Venezia in un incontro promosso da Emergency, si tratta del Manifesto per una medicina basata sui diritti umani, elaborato a Venezia nel 2008, prevede che il diritto alle cure mediche è fondamentale e irrinunciabile e che i sistemi sanitari siano basati su tre principi fondamentali: “uguaglianza, qualità e responsabilità sociale”, ciò significa che i bisogni sanitari in tutto il mondo siano trattati con mezzi al passo con i progressi della scienza medica. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma nel 2000 nel mondo sono stati spesi 798 miliardi di dollari per la guerra, nel 2009 la cifra è salita a 1531 miliardi di dollari. Tradotto in termini un po’ più vicini a noi vuol dire 4,2 miliardi di dollari al giorno, 50mila dollari al secondo. Ecco perché un solo giorno di guerra, in Afghanistan, “vale duecento milioni di euro cioè la costruzione, l’equipaggiamento e funzionamento per i primi tre anni di dieci nuovi ospedali in Africa! Si prendessero un giorno libero” dice Gino Strada, il fondatore di Emergency, durante la conferenza su ‘Guerra medicina e diritti umani’ all’incontro nazionale di Firenze.

12/9/2010

Si conclude il raduno nazionale di Emergency a Firenze. Cecilia Strada, alla Plenaria conclusiva del raduno nazionale dell’organizzazione, sottolinea l’importanza dell’appello al valore dell’eguaglianza facendo riferimento a una notizia sul giornale che è stata inaugurata la prima scuola federalista e leghista, ad Adro, in provincia di Brescia, dove i bambini che non mangeranno carne di maiale possono starsene a casa. E raccoglie una cascata scrosciante di applausi di approvazione dell’auditorium gremito di volontari. “Di fronte a queste cose, io non penso che siamo duri, anzi, siamo anche troppo morbidi”. Alessandro Bertani, vicepresidente dell’organizzazione, ha sottolineato il grande successo, di un “raduno che deve essere l’inizio di qualcosa di nuovo, come le facce nuove e giovani che ho visto quest’anno. Ciò significa che Emergency è viva e capace di attrarre nuove forze. E’ un segno di speranza. In Emergency l’utopia si è sempre chiamata progetto. Il progetto diventa programma e questo diventa pratica. La pratica si traduce in fatti.” Per Gino Strada, fondatore di Emergency, “il documento viene a distanza di due anni dal manifesto sulla medicina basata sui diritti umani. E’ una riconferma dei fondamenti del nostro lavoro, che coincidono con i fondamenti di una società civile, perché lo scopo della medicina è in fondo quello di fare stare bene, così come lo scopo di una società civile è far vivere bene i cittadini. Abbiamo definito i princìpi insistendo molto sul senso dell’eguaglianza. Da domani dovremo incominciare a porci il problema di come questo documento possa stimolare una riflessione tra i cittadini. Immagino le reazioni. Credo che molti diranno che il documento è un’utopia. Io so che le utopie sono le cose che non si sono ancora realizzate. Nel XVII secolo la fine della schiavitù era un’utopia. L’utopia è qualcosa che non si è ancora fatto e che si deve fare. Io la considero come una urgente, urgentissima priorità. Dobbiamo riuscire a cambiarlo questo mondo – e non sto delirando -, non solo ad auspicarci che possa cambiare, perché non c’è più molto tempo prima della catastrofe. E la catastrofe succede, prima o poi. Come nella vignetta di Vauro su Emergency e la battaglia per la pace: la colomba, il ramoscello di ulivo in bocca e il peperoncino nel culo. Noi abbiamo il ramoscello di ulivo in bocca, dobbiamo fare il resto. Dobbiamo avere fretta. In Italia io oggi non vedo un’associazione che possa innescare questo processo, al di fuori di Emergency. Non vedo altri che possano raccogliere quattrocentomila firme, come è accaduto per la liberazione dei nostri operatori in Afghanistan. Non vedo organizzazioni che fanno dibattiti come i nostri, dove il numero dei partecipanti è sempre superiore alla capienza delle sale che li ospitano. Bisogna operare una chirurgia mentale per dimenticarci del mondo reale. Non significa essere sognatori o pirla: se continuiamo ad avvitarci nella logica del mondo reale si resta in un circolo vizioso di delusione, frustrazione, immobilità. E’ il momento di cominciare a fare ‘come se’… Bisogna fare come se chi ha calpestato questi diritti e questi principi non esistessero, non fossero gli interlocutori, i punti di riferimento. I punti di riferimento sono i nostri concittadini. (Ben detto!) Bisogna appassionarsi a questo mondo, amare i progetti prima ancora di farli. Ed è quello che succede anche per i nostri ospedali. Il centro di Khartoum resterà nella storia dell’Africa. Se non lo avessimo amato, questo progetto non avrebbe preso corpo. E’ un’utopia delle possibilità. Non sarà facile, ci vorrà tempo. Io non la vedrò, ma credo che lo dobbiamo a chi oggi ha vent’anni, a chi oggi ha un anno. Non si può passare un testimone schifoso alle nuove generazioni. La staffetta di civiltà dei nostri padri si è interrotta. L’impegno di Emergency, il prossimo anno dovrà essere quello di diffondere quel manifesto. Come? Nell’unico modo possibile, col nostro lavoro pratico di costruzione di diritti umani anche in Italia. Ricevere in mano il volantino ha un effetto diverso che darlo a chi è stato curato, visitato, ascoltato in uno degli ambulatori mobili. Bisogna mettere insieme queste due cose: la pratica dei diritti umani e la comprensione della valenza di questa pratica. Il nostro non è un manifesto ideologico, ma un cartellino con il gruppo sanguigno, o la dichiarazione della donazione di organi. Questi sono i nostri valori e non sono negoziabili. Se riusciamo nella realizzazione di questo progetto, allora buon viaggio, Emergency”.

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