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I poeti-zanzara

I poeti-zanzara
Settembre 15
17:27 2016

Una malattia che dura da secoli – Testimonianze di Orazio, Marziale, Petronio, Leopardi e di poveri cristi contemporanei.

Chiedo scusa alle zanzare, in quanto esse molestano solo d’estate, mentre i poeti-zanzara infastidiscono tutto l’anno quei poveri cristi che capitano loro a tiro.
Essi hanno un solo interesse, una sola passione, un unico obiettivo: imparare a memoria i propri versi onde sputarli nelle orecchie di chi finisce sotto le loro unghie.
Per questi non rari esseri, il mondo è fatto per ascoltare le loro composizioni. Non esistono altri poeti: non conoscono un solo verso di Dante, né di Leopardi, né di Pascoli. Eccetera. Loro scrivono la notte, poi mandano a mente come un testo sacro le loro poesie e le recitano a chi è disposto ad ascoltare ma anche a chi sfugge: posseggono un’arte speciale per afferrare il malcapitato e non farlo scappare finché non lo abbiano sfinito.
Sembra una mia invenzione, ma non solo è cosa reale, ovunque, bensì è vizio antico. Se avete pazienza, cito qualche grande nome di ieri e del passato remoto al fine di dimostrarvi che tale malattia, sottovalutata, era diffusa come la peste. Iniziamo con Marziale e leggiamo, tradotto dal latino, un suo epigramma in materia (Libro III, 44):
“Nessuno ti incontra volentieri e dovunque tu vada, o Ligurino, tutti ti fuggono sicché ti circonda una solitudine immensa. Vuoi conoscere il motivo? Tu sei troppo poeta: questo è un vizio particolarmente pericoloso. Non sono temuti come te né la tigre alla quale hanno sottratto i piccoli, né la serpe arsa dal sole dei tropici, e neppure il mortale scorpione. Io mi chiedo chi potrebbe essere in grado di sopportare i tuoi supplizi! Tu leggi i tuoi versi se sto in piedi, me li leggi se sto seduto, altrettanto quando corro e pure se sto cacando…”

Ahimé: quando avevo più fiato, partecipavo talvolta alle maratone amichevoli per svagarmi, ma anche lì, in una di quelle, mi si piazzò stretto accanto un poeta che, pur correndo entrambi, per l’intero percorso mi scatarrò a memoria le sue mille poesie, finché, stanco e sconfitto, dissi che mi sarei ritirato dall’agone per sedermi, ma lui fece altrettanto, fino a sfinirmi. Allora ripresi a correre con tanta velocità, che lo seminai affidandolo malauguratamente a qualcun altro povero disgraziato!
Orazio, un po’ di tempo prima di Marziale, già ironizzava: “Costui, o scrive versi o diventa matto”, sottolineando che a Roma “l’ombrosa schiera dei poeti” era più numerosa degli ebrei. Infatti, Petronio dirà molti decenni dopo: “Multos carmen decepit”, cioè la voglia di far poesia trae molti in inganno (e un personaggio del Satyricon, Eumolpo, è preso ovunque a sassate dalla gente perché non smette mai di recitare i suoi versi a cani e porci. Leggiamo il testo, tradotto, naturalmente: “Coloro che andavano su e giù per il portico scagliarono pietre all’indirizzo di Eumolpo impegnato a recitare versi. Ma quel campione, sapendo quanto successo riscuotevano i parti del suo ingegno, si buttò il mantello sulla testa e se la svignò, uscendo dal tempio. Io ebbi paura che mi presentasse come suo collega, per cui, seguendo le piste della sua fuga, giunsi alla spiaggia e, non appena fu possibile fermarsi, fuori dalla portata della sassaiola, gli dico: – Ma insomma, dove vuoi arrivare con tale fissazione? Sei con me da meno di due ore e hai parlato più in versi che da comune mortale. Sfido io che poi la gente ti insegue a sassate. Anch’io mi riempirò le tasche di pietruzze, così, ogni qualvolta tu darai segno di andare fuori di testa, ti faccio un salasso al cervello…”).
Sono persone per le quali la gente non deve avere altri impegni che ascoltarli incantata.
Purtroppo, le poesie le scrivo anch’io: non ne conosco una a memoria delle mie e non ne recito un verso neppure se invitato. Preferisco imparare a memoria i capolavori altrui.
Comunque, avvicinandoci al nostro tempo, devo citare quello che pensava Giacomo Leopardi (cfr: “I Pensieri”, XX): “… Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana…”
Li vedi, questi poeti-zanzare, appostati a spiare la prossima vittima, e pungerla improvvisamente, di contrabbando, con un fare implacabile e formidabile: per evitarli devi non uscire di casa, perché li trovi dovunque, sia fra i letterati pazzi che fra i versaioli a braccio.
Ci sono luoghi (piazze, bar, giardinetti…) in cui alcune persone, torturate dai vati, non mettono più piede. I vati non tollerano ragioni: e recitano, senza sputare una volta, fino alla fine le loro cantilene. Spesso entrando con te al bar e sbafando pure il caffè!
Un giorno, triste per la morte di una mia cugina, stavo andando verso la chiesa, quando una macchina, venendo in dirittura inversa alla mia, nella stradina a senso unico, si ferma. Riconosco il soggetto e gli dico subito: “È morta mia cugina: sto andando alla cerimonia funebre”. Ci credereste? Mi afferrò con violenta stretta il polso, anfanando: “Ho per te questa mia poesia: ti consolerà”. Ormai sconfitto e disperato, cercavo di liberarmi dalla morsa, quando le macchine dietro cominciarono a clacsonare irrequiete, ma lui era preso dal sacro furore e non mi lasciò finché non ebbe terminato la giaculatoria letale.

Comunque, mi sono consolato (seppure amaramente: mal comune mezzo gaudio), quando mio cognato, che pure non dà facilmente confidenza agli sconosciuti, mi ha narrato la sua prima disavventura in questo campo.
“Ero andato in un paesino sperduto della Ciociaria per starmene un po’ in pace dopo aver lavorato sodo, quando, seduto a una panchina di fronte a un panorama rilassante, un vecchietto mi si mette a lato e mi fa: – Io sono un poeta, ora le leggo una poesia scritta stamattina… – Ascolto con pazienza, ma appena finita la dizione metto scusa che devo andar via perché scade il foglietto orario della macchina. Lui mi dice che vuole accompagnarmi e, cammin facendo, continua a sbrodolare versi a memoria. Insomma, son dovuto salire alla guida e andarmene come fossi punto da cento zanzare…”
Se dovessi narrarle tutte, almeno quelle che ricordo, riempirei un’enciclopedia della disperazione. Ero in un paesino del frusinate, d’agosto, con un’afa d’inferno, a presentare un interessante libro di filosofia. Appena finita la cerimonia, mentre ci si avviava verso il ristorante e il caldo ancora batteva sul cranio, si avvicina un uomo dallo sguardo alterato e inizia: “Caro Onorati, da quanto ti cercavo! Ascolta come si scrivono le poesie!” E, unghiatomi il collo, a voce stentorea, in un dialetto per me indecifrabile, come vantasse una maestria suprema, urlava a pochi centimetri dalle mie povere orecchie, finché non fummo giunti in trattoria. Io guardavo se Filippo o qualche altro gradito compagno mi salvassero dal martirio che stava per farmi urlare dalla disperazione, ma nessuno era ancora arrivato al ristorante. Il pazzo, sedendo accanto a me, in segno di vittoria fece: “Abbiamo tutta la cena per noi, caro Onorati! Vedrai, vedrai… è da tanto tempo che ti cerco…”
Ormai vinto, non avevo altra scelta che fuggire. Misi scusa che dovevo urgentemente andare in bagno e lo pregai di tenermi il posto. Scappai di corsa verso la macchina, fuggii digiuno, furioso a causa di un odorosissimo pasto perduto, ma trovai lungo la strada una pizzeria; entrai, sbirciai intorno, mi nascosi a un tavolinetto all’angolo e, ordinato subito da bere, chiesi conforto al buon vino rosso di quelle parti, ricordando che proprio nella primavera avanti, in un noto paese del sud, dopo la premiazione (avevamo avuto l’onore di conferire il guiderdone a Riccardo Muti!), eccoci al convivio. Mi siede accanto uno che chiede se avessi ricevuto il suo libro di poesie. Non ne sapevo niente, ma la mia bonomia rispose che lo avevo ricevuto e letto, quindi mi complimentavo con lui. Non lo avessi mai fatto. Quello iniziò a interrogarmi sulle sue poesie, per sapere quale avessi apprezzato di più. Al mio muto imbarazzo, sgranava gli occhi, recitandomi ora questa ora quella, nella speranza che io ricordassi. Arrivò un appetitoso antipasto, ma lui non mi permise di mangiarlo, attaccato alle mie orecchie. Rosa, mia moglie, che sedeva dirimpetto a me, con una scusa che lì per lì non compresi, mi portò via da tanto strazio, e andammo, finalmente indisturbati, a mangiare in una trattoria remota agli sguardi indiscreti e – per fortuna – senza poeti-zanzara…
Comunque, credo che la migliore conclusione la offra un pensiero di Henri Duvernois. Eccolo: “Non avete mai visto un letterato che, per un motivo o per l’altro, si trova nell’impossibilità di parlare di se stesso? Osservate lo smarrimento dei suoi occhi, l’inquietudine della sua bocca, l’impazienza mal frenata dei suoi movimenti. Egli aspetta e l’occasione non si presenta. Allora si gonfia d’amarezza come un uccello malato. È sdegnoso, olimpico: sembra tacere, con dolore, tutto il male che pensa degli altri. Lasciate cadere su di lui l’elemosina d’un pietoso silenzio e vedrete la sua testa uscire dalle spalle, i suoi occhi illuminarsi, le labbra riprendere la curva normale, e tutto il suo essere appare liberato finalmente da questa parola che gli ostruiva il petto e saliva, a singhiozzi, alla sua gola: – Io”.

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