I “brevissimi” di Maria Lanciotti
Anima periferica ‒ Le bambine raccontano e altre dispa(e)rate storie
Un libro che lascia un segno nell’anima di chi legge: cicatrice o ferita risanata è impossibile rimanere indifferenti.
Diciassette bambine descrivono attraverso le sapienti pennellate dell’autrice scene di vita, quotidiana e non, pezzi della propria realtà a volte descritti come visti tramite il filtro solare che consente di vedere una eclissi: vetro affumicato che solo permette di osservare con nitidezza un fenomeno straordinario e naturale. La naturalità con cui ogni bambina parla di sé e ci fa ‘vedere’ momenti della propria intima esperienza consentendo a chi legge l’identificazione con ognuna di loro, per un motivo o per l’altro.
A volte ho davvero pensato stesse parlando proprio di me: questa capacità di Maria Lanciotti di entrare nelle pieghe della psicologia femminile mi ha consentito di rivivere tanti diversi momenti della mia vita.
Sembra potersi dire che sia stata identificata una particolarità dell’animo infantile femminile: la capacità di trovare soluzioni emotive a complesse vicende. Una femminilità acerba, ma già con una propria specificità, quella di individuare comportamenti risolutivi a fronte di complesse dinamiche familiari.
In “Zolfo e fichi” ad esempio, racconto poetico ed intenso, dove si sente l’odore dello zolfo in una iconica metafora dell’odore della rabbia e dell’aggressività troviamo il mutismo selettivo del padre verso la moglie, mentre con la figlia si apre a riflessioni e pentimenti motivandola a trovare una soluzione.
La bambina trova nella reiterata raccolta dei dolci fichi una soluzione che, se non ne sentissimo sia l’odore che il sapore, potremmo definire magica e che riporta nella casa l’armonia e il dialogo familiare compromessi. Desco familiare rumoroso e dolce che definisce la storia e chiude il racconto.
In “Guarda dove metti i piedi” viene toccato con un verismo fatalista e rassegnato sia il tema delle “missioni di pace” che quello della morte con una semplicità che solo gli occhi di una bambina possono sopportare.
La morte diventa null’altro che una bara ricoperta da un telo bianco e un disegno con un’esortazione utilissima nell’aldilà: “guarda dove metti i piedi!”
Atmosfere, odori, rumori vengono evocati nel breve spazio dei racconti, facenti parte non a caso della collana “I brevissimi”, in una rappresentazione densa di spunti teatrali, cinematografici, comunque visivi.
I titoli stessi suscitano un loro particolare effetto rappresentativo: “Il senso del falco”, “Sposa monaca”, “Regina non mi ha insegnato a morire”.
Colpisce ed emerge l’innata saggezza delle bambine che, per tutta la prima parte del libro, riempie l’aria di atmosfere genuine ed immediate.
Note di tenerezza e ilarità in “Un posto in Paradiso” dove il luogo sacro si spera possa accogliere un porcellino dalle alucce rosa insieme ai cherubini.
In “Una famiglia normale” due sorelline si alleano per riportare l’armonia in una famiglia con ambedue i genitori “esperti” che dispensano ad altri i propri consigli, ma distrattamente perdono il contatto con la realtà dei problemi della propria famiglia.
Sembra che l’autrice attribuisca agli occhi delle bambine il potere di vedere le cose della vita più da vicino e quindi in maniera più semplice e vera. Le soluzioni che esse trovano a situazioni complicate sono a volte di una apparente e sconcertante banalità; scenari drammatici e tragici evolvono semplicemente in un quadro chiaro e limpido, facile da comprendere e risolvere.
Nelle ventinove storie della seconda parte una linea di violenza descrive un’umanità che spesso agisce con la ferocia dell’istinto e si insinua nelle pieghe della disperazione.
Come in “Per una morte bianca” in cui la protagonista, condotta davanti al giudice per rendere conto dell’omicidio del marito violento afferma:
“ Sì, signor giudice, feci tutto da sola ma non m’inventai niente, concordo con lei sul fatto della crudeltà efferata e diabolica di tutta la macchinazione, ma mi rifeci semplicemente a un fattaccio di cronaca di qualche tempo prima, di cui conservo il ritaglio.
No, signor giudice, non sono pentita, i miei figli, che c’entrano loro con la mia storia sciagurata? Loro adesso sono salvi e vivono in un bel collegio dove possono crescere e studiare in pace, senza più tremare per me e per tutti loro… No no, il mio non è stato un omicidio volontario, io non avevo la volontà di uccidere, ma la necessità di uccidere”. Della violenza che il compagno le usava quotidianamente si intuisce la sorda arroganza nella prima parte dello stesso racconto.
In “Tintoria tre stelle” si descrive una diversa tipologia maschile, con Ghigo che sperava di darsi un alone di mistero indossando il montgomery nero in tutte le stagioni e poi sparisce senza un saluto alla ragazzina vestita a lutto al cui seno acerbo si erano scaldate le sue mani.
La protagonista di “Murale” trova invece la sua libertà nella “segregazione volontaria su un palmo di terra” che le permette di “ritrovarsi nelle leggi aspre e immutabili della natura”.
I protagonisti di questa seconda parte appartengono all’immaginario collettivo e realizzano l’ intento universale di ampliare la prospettiva personale nello spazio e nel tempo senza limiti di genere, di età, di condizione sociale. Sembra che quello che lega le due parti del libro sia la stessa natura umana, unica responsabile di gesti di nobile levatura o di selvaggia brutalità.
Un libro che lascia un segno nell’anima di chi legge: cicatrice o ferita risanata è impossibile rimanere indifferenti.
Anima Periferica di Maria Lanciotti, Edizioni Controluce 2021
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