I 25 anni de ‘I versi’ di Rushdie
I versi satanici
Salman Rushdie
Traduttore/i: Ettore Capriolo
9788804588207
Mondadori
€ 11 e-book disponibile NO
Nel 1988 esce I versi satanici di Salman Rushdie, segue una fatwa, rinnovata ancora nel 2008 all’autore, e l’uccisone e il ferimento di alcuni che ebbero a che fare col libro, che sembra anche una parte della trama de Il nome della rosa di Umberto Eco cambiando, ovvio, la forma ma non l’oggetto del contendere: un libro.
Nel 2013 il poeta M. Rashid Al-Ajami si prende 15 ani di carcere, scampando l’ergastolo affibbiatogli nel 2012, per una poesia che secondo il tribunale del Qatar inciterebbe al colpo di stato. Non diremo nulla di nuovo e nient’altro su queste circostanze e altre accadute poi, perché in 25 anni è cambiato l’universo mondo, ma intanto, sulla rete e fuori, c’è ancora gente che soffre e muore per righe scritte nero su bianco, così che sarà difficile negare la potenza della parola al di là delle visioni personali. Sulla potenza del racconto invece. Nel chiacchiericcio densissimo e coltissimo di Rushdie, in parte esplorabile solo da cultori della lingua madre e della tradizione indiana e delle forti connessioni con la ‘madre coloniale’ Inghilterra, si finisce proiettati in una storia di oltre cinquecento pagine che non può sganciarsi neppure da Le mille e una notte. I lettori, accodati ai protagonisti Saladin Chamcha e Gibreel Farishta, ambedue scampati ad un disastro aereo per mezzo di un miracoloso volo, passano per case, uffici di company, strade, spiagge, periferie, proiettati all’acme della cultura metropolitana, contaminata, altera, capace di mescolare alto e basso come si poteva fare, forse, solo 25 anni fa. Da questo punto di vista il romanzo appare quasi datato: quell’ottimistico slancio verso la ricchezza culturale da melting-pot oggi è guardato di sbieco, interessa meno e molti vorrebbero tornarsene a casa propria, a prima della globalizzazione. Gli stessi protagonisti del viaggio sono in guerra con la propria cultura d’origine, anche quando si ritroveranno nelle vesti rispettive di bene e male, angelo e diavolo, presi loro malgrado da una lotta con sé stessi che li lascia sempre più stremati e confusi. Il viaggio, i rimandi, le ispirazioni letterarie, gli sguardi, sono la materia più intrigante del libro. Non sarà forse un capolavoro, ma ritrovare qui la complessità metropolitana e la storia di una triade, protagonista Abu Simbel, lascia una forte sensazione di speranza non tanto e non solo nella letteratura, ma nella memoria, nella tradizione, nel particolare, nella bellezza gratuita che fa l’umano ciò che è (a volte pare di riattraversare le calde strade polverose de Il mio nome è rosso di Orhan Pamuk). Suggestiva l’introduzione al capitolo ‘Ellowen Dioen’: si viaggia quasi rapiti da un tappeto volante di paesaggi e culture, credibili le ricostruzioni storiche, il libro somiglia ad un tappeto antico anche per la trama dai mille fili, alcuni riannodabili, altri sfilacciati come la difficile convivenza in un unico individuo di più culture alle quali non riesce a dare/non può più dare il nome di ‘madre’. Ultimo lavoro in ordine di tempo per Rushdie, Joseph Anton, Mondadori, il racconto di una vita blindata, la sua. (Serena Grizi)
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