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“Hoc mihi contingat” di Nazario Pardini

“Hoc mihi contingat” di Nazario Pardini
Gennaio 30
16:51 2022

Poesie e prose Hoc mihi contingat di Nazario Pardini, con prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore

«Questo mi tocchi in sorte: sia ricco, a ragione, chi può sopportare la rabbia del mare e le tristi piogge…»

(dalla prima Elegia di Albio Tibullo).

Un Sogno agreste, l’onore e la gioia più grandi che “mi potessero capitare in sorte”, è scrivere sul Poeta che ho seguito “Alla volta di Lèucade”, ovvero nell’isola dalle acque color cobalto, famosa per il tuffo di Saffo dalla rupe e per essere divenuta il suo universo artistico, il blog di poesia più importante d’Italia, dove moltissimi amici dediti a varie forme di cultura si ritrovano per confrontarsi, crescere, arricchirsi. Con il Poeta ho vissuto la magia di Tra gli scaffali della Biblioteca; autori illustri di ogni epoca uscivano dai tomi e si ritrovavano a discutere in allegro convivio. Ho visitato i Dintorni di vari suoi sentimenti e ho incontrato Delia, la Beatrice del nostro tempo, nella quale è stato così bello identificarmi.

Ed eccoci al Sogno agreste e «ai tempi in cui vibrando sul suo stelo / ogni fiore evapora come un incensiere»; il titolo del prosimetro è elegiaco, la dedica in esergo e i versi appena citati sono tratti dalla poesia Armonia della sera di Charles Baudelaire, tanto caro a Pardini e alla sottoscritta. Scivolo in quest’Opera di versi e prosa, a occhi chiusi, nella scia del sogno di Tibullo, convinta che mi stia toccando in sorte qualcosa di immeritato, di sublime.

Il viaggio si divide in cinque tappe: Elegie; Dalla vita dei campi; Alla ricerca di voci; Attorno al focolare; Massime. Nella sezione Elegie il Poeta mi conduce, nell’apparente tristezza dei colori autunnali: «Melanconico autunno, non dirò / delle foglie morte che stamani / tu dissemini sopra il mio sentiero, / e nemmeno dei colori moribondi / di cui ti impreziosisci; ma stamani / mi piace ricordarti quell’autunno / che tanto melanconico non era, / anzi sprizzava gioia tutto attorno / c’era lei, ti ricordi, e le tue foglie…» (Melanconico autunno). È tipico del Professor Pardini cedere alla saudade solo in apparenza e soprattutto associare alla melanconia quella che Victor Hugo definiva «la felicità di essere tristi», che può sembrare un ossimoro, ma è la dimostrazione che la malinconia non sarebbe possibile senza memoria. «C’era lei, ti ricordi e le tue foglie…» e c’era Laura, «…Laura. I suoi occhi di un celeste marino / traevano la profondità / dagli abissi del cielo che, trafitto / dal passo degli uccelli si spargeva / tra i raccolti; fu proprio dal padre / che aveva ereditato l’amore per i campi…» (Laura e il bosco degli ulivi).

I versi composti con l’inchiostro e con il sangue per il Babbo («Non mi ricordo più se sei esistito, / babbo. Ho soltanto l’immagine sfuocata, / che vedo ogni giornata al cimitero…») e per la Mamma («Ma tu sei stata giovane? / Hai baciato mio padre nel tempo dell’amore? / Oppure hai conosciuto solo la miseria / senza poter distrarti dai giochi della vita…») rompono gli stampi, ci presentano un Poeta nudo, che io tengo stretto, mentre non si vergogna di piangere in mezzo alla strada. Pardini ci insegna il coraggio del dolore. In effetti dimenticare la sofferenza è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancora di più. La felicità non lascia cicatrici da mostrare. Dalla quiete impariamo molto poco. Il Poeta dimostra che il dolore è un Maestro: sotto il suo soffio lievitano le anime. Sono accanto a lui nel percorso accidentato delle isole della memoria. Com’è difficile chiedere a una madre se ha baciato il padre, eppure da ragazzi ce lo siamo domandato tutti. Lui svela l’inesprimibile. I genitori sono stati sagome tatuate sulla pelle del tempo e non li si immaginava ardenti, appassionati, uomini e donne come gli altri. Ci sarebbe sembrato quasi peccaminoso. Io l’ho pensato e scopro che «Ciò che tocca in sorte» consente al Poeta di accendere i nostri rimpianti, le nostre domande.

A stemperare l’atmosfera tinta dello spleen di Baudelaire, esplode la musica, il battito che ci porta sul sentiero dell’armonia. Il poeta rivede le sue donne; Delia non poteva mancare, è figura del mito e le sono concesse molte vite a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati a una sola esistenza. «Delia e i tuoi sorrisi / Delia le vesti bianche / Delia i tuoi occhi neri / e la pelle scura / e la paura candida / mia Delia, / quando correvi sola. / Vibravano le vette in mezzo al cielo / t’accompagnava un canto / su per un manto verde / dove si perde ancora il tuo sorriso / ed il mio viso a stento / ritrova bianche perle / ai bordi della vita» (A Delia). La definisco mito non in senso favolistico; Delia incarna l’amore del Poeta, poco importa darle il vero nome, assurdo inquinare l’incanto dei versi con i rimandi al reale. E mentre vivo questo Sogno agreste fermo la brama di ascoltare come liuto «…la (sua) voce nel pieno dicembre» (Alla mia donna), e scopro che Delia, l’estasi eterna, nell’Elegia che ci trascina, torna a trovarci in prosa, anelito irrisolvibile, vitale, figura umilissima e sovrana dei cosmici perché del respiro del Poeta. «Delia, gli alberi affogano la loro miseria fra le nubi del cielo ed io fra la miseria degli uomini ho bisogno di te, stasera. Quando il cielo cade su noi, sento che mi chiami e il viale impoverito dalla brezza affilata che il Serchio alimenta, stringe al suo seno l’ultimo respiro delle pallide foglie: come è triste vedere la notte quando l’amore sostiene la vita» (Delia).

Il cuore della natura pulsa in sintonia con questo testo campestre e marittimo, che è l’habitus perfetto del Professor Pardini. Empatia assoluta con i miracoli poetici del Creato, «L’alba respira aria di luce, / ma gronda la nebbia dal colle, / rifugia campi deserti, / uccelli esperti di semi…» (Aria di luce). Lo confesso, anelo a essere l’aria che abita nel Poeta per un momento, solo uno. Vorrei passare inosservata, ma essergli necessaria. Tante le melodie che vagano in essa e occorre fare attenzione a non calpestarle. Io devo limitarmi a svolgere un ruolo di spettatrice, pur sapendo di condividere l’amore immenso per il mare con il Poeta. Entrambi siamo legati ai versi del caro Baudelaire: «…Il mare è il tuo specchio / contempli la tua anima nel / volgersi infinito della sua onda…».

Albio Tibullo e il poeta de I fiori del male sono il filo conduttore di quest’avventura attraverso i ricordi, la malinconica nostalgia, l’idealizzazione dell’amore e il rapporto empatico con la Natura delle Elegie. Come nel meraviglioso testo Tra gli scaffali della biblioteca, si conoscono, sfidando le epoche lontane, le tematiche diversissime, i lessici distanti. Si incontrano per volontà della sottoscritta che si è ostinata a trovare un punto d’unione tra i due nell’ambito di questa eccellente Opera. Il prosimetro non è un genere nuovo al Nostro. Altri suoi testi giocano sull’alternanza di poesia e prosa, che affascina e riporta alla Vita nuova di Dante, ma anche ad autori contemporanei come Dino Campana con la raccolta Canti Orfici. Definito la forma informe per eccellenza, si accorda benissimo, come strofa di una sinfonia musicale, con le poesie in metrica, conferendo all’andamento della versificazione carattere altalenante, tipico di una metricità intenzionalmente interrotta, spezzata. Grazie al prosimetro è possibile dare un profondo senso di svolgimento e interiorità a una vicenda personale, riaffermando con una sensazione intimistica il vero valore della Poesia. L’autore in Hoc mihi contingat realizza esattamente questa visione ampia ed esaustiva del proprio mondo lirico.

Alle poesie lunghe, immaginifiche, se ne accostano altre, aforismi o distici, esempi luminosi dell’arte della brevità: «Siamo sperduti nel cielo / su un corpo / senza luce» (Solitudine); «E tutti attendiamo su spazi ristretti, / respiri di cieli lontani» (Cieli lontani). Ricorre in questi due cammei il tema del rapporto dell’uomo con il cielo, e d’altronde, per rimanere nel Sogno agreste tibulliano e per potermi legare all’estratto in prosa mi sento di asserire che anche la foglia di un albero è lo sforzo senza fine della terra di comunicare con il cielo. Il Poeta scrive: «Il cielo si spegne lentamente, fuori il freddo secco lascia deserte le strade. Le porte appena si aprono e subito chiudono i loro soffocati interni al mondo che li circonda. La luna che ci rischiara osserva quasi pietrosa quei movimenti che da eterno si ripetono: i colori sono gli stessi, le figure si perdono nel buio, restano ombre spoglie in questa serata d’inverno che richiama alla mia mente fuochi, castagne, deboli vinelli chiari, romanze, tanti volti di campagna rossi ed allegri scomparsi, lasciando soli i loro inverni» (Inverni solitari). E se non è poesia questo distillato… Gli autunni, queste stagioni che preparano mirabilmente il solenne adagio dell’inverno. Paul Verlaine scriveva: «I lunghi singhiozzi / dei violini d’autunno / mi feriscono il cuore / con monotono languore…» e si accorda, forse, questo aforisma con la melanconia che il Poeta celebra nei suoi versi.

La seconda tappa del viaggio Dalla vita dei campi è introdotta, in esergo, da alcuni versi della prima Elegia di Tibullo e sento di dover salutare Baudelaire, lasciandolo sulla battigia a osservare questo percorso d’amore nelle radici, nella patria interiore e fisica del Poeta. «…Corro col mio cuore, / corro con la mia mente, / oltre quel campo in fiore / accanto alla mia gente» (La mia gente). Il cuore fa i suoi voli, non si può fermare, e più passa il tempo e più torna indietro, quasi avvertisse l’esigenza di ricuperare ogni atmosfera, ogni sapore, ogni miracolo quotidiano. Nazario Pardini ritrova le fatiche dei campi, l’attesa dei frutti, dimostra come amare la vita attraverso il sacrificio significhi penetrarne il segreto più profondo. «Guardavo la mia terra / al tramonto / quando la fatica del mio corpo / equivaleva ad un campo rimosso…» (Stanco mi riposo). Si adagia con gli occhi rapiti sui “silenzi serali”, sensazioni oggi in esilio, in mezzo al frastuono, come angeli caduti: «…Silenzi di serate / adagiate sui rumori del giorno / mi ronzano d’intorno / quando il cielo ricopre / una lunga voce / che viene da lontano» (Silenzi di serate). Sembra di visitare un paesaggio onirico di echi e musiche lontane… I quadri che si susseguono in questa sezione sono un grande tributo al poeta latino, prediletto dal Nostro, per la connotazione unica che attribuiva al modo di comporre, infatti nelle sue Elegie era solito annunciare un tema che riprendeva alla fine e, soprattutto, lasciava che le immagini si succedessero per evocazione e per analogia una dopo l’altra come in un sogno. Proprio di Tibullo era lo sfondo campestre, un mondo ideale rappresentato tramite versi vividi nei quali proiettava il suo desiderio di pace e serenità continue.

Il viaggio con il Poeta ci conduce alla terza tappa Alla ricerca di voci, una raccolta di detti toscani e bucolici in genere, che mettono in luce l’uomo eterno fanciullo che non si lascia intrappolare dalla rete degli anni, che non si arrende a essere di ritorno dall’avventura dell’esistenza e che ci ricorda che «c’è voluto del talento per invecchiare senza diventare adulti» (J. Brel). Ne menziono un paio: «Se la botte non gruma / in tuo vino sa di spuma»; «Se il tosto è nel campo / per ora non c’è scampo».

Ed eccoci ad Attorno al focolare, ovvero a un capitolo di struggenti racconti brevi, che nulla concedono allo scontato. Lo dimostra il primo brano Lettera a mio figlio, che ricorda nella forza del contenuto la famosa omonima composizione di Rudyard Kipling. Pardini, infatti, scrive: «Figlio mio, ama la libertà, la democrazia, l’alternativa, il confronto! Contribuisci ad esaltare quei paesi dove tale libertà regna e si compie. Puoi vivere in pace con la tua anima, se la tua anima è in pace con se stessa. Lotta per un potere che ti permetta di esprimere le tue idee, che ti permetta di contribuire col tuo potenziale umano al progresso degli uomini». Un lascito testamentario di altissimo valore morale e di profondo impegno civile. Altri racconti come Sulla groppa di un delfino mettono in rilievo l’aspetto dicotomico del Poeta, legato al mondo bucolico, ma con le ali spalancate sul mare, e la sua creatività narrativa. Attinge al realismo magico perché coniuga magistralmente elementi astratti, quasi legati alla favola, ad altri veritieri. La poliedricità dell’Artista è riscontrabile anche in prosa, infatti i testi sono diversi per tematiche, costrutto, svolgimento, metodo narrativo. Per sconfiggere la morte, per esempio, ci trasporta in un paesaggio surreale e di rara, tragica originalità. Superbo il nerbo letterario del Poeta, che in quest’Opera continua a rivelarsi, dando prova peraltro della sua incredibile vena attuale. Gigante dei giorni nostri, Poeta legato all’elegiaco artista nato nel 50 a.C. e all’Autore francese maledetto…

L’ultima tappa del prosimetro è dedicata alle Massime, aforismi che inducono a spunti di riflessione sulle ancestrali verità dell’esistenza. «Della morte accetto la fine, ma non accetto il nulla»; «La solitudine è una compagnia troppo rumorosa»; «L’assenza di noi è noia, la nostra coscienza è il malessere di esistere». Ne cito soltanto tre, consapevole di far torto a un Artista così assoluto da far tremare le montagne e increspare le onde del mare. E gli sono infinitamente grata di avermi concesso di attraversare tanti universi al suo fianco, è stato tutto così travolgente che «per poco / il cor non si spaura» per dirla in termini leopardiani.

Mi congedo dal Poeta con nostalgia e con la consapevolezza che le persone che sognano si riconoscono: hanno negli occhi un velo di ironica dolcezza, la malinconia addormentata agli angoli della bocca, dietro le spalle profumo di zolle, sulle mani il sale del mare.

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