Hine: il fotografo che ti costringe a vedere
C’è sicuramente in Hine, ed in un modo neanche troppo marginale, anche una preoccupazione per l’estetica, per la forma. I suoi scatti sono geometricamente impeccabili, dove nulla è lasciato al caso. In nessun modo i nostri occhi potranno divagare liberamente da un punto all’altro della foto, inseguendo affannosamente un ipotetico centro o una periferia, ma verranno indirizzati e troveranno il centro con un preciso e accurato movimento pressoché circolare. Il fotografo ci costringe a vedere.
Nel caso della fotografia scattata negli stanzoni di Ellis Island ad una famiglia italiana appena sbarcata, i nostri occhi incontreranno quelli del ragazzo che tiene per mano la sorellina, poi la valigia, quindi la bambina in braccio alla madre e infine il viso di lei. E il cerchio si chiude. È un criterio fondamentale e intelligente quello che Hine utilizza nella costruzione delle immagini, e che, come vedremo, verrà utilizzato anche da altri fotografi nel corso del secolo. In un’America elevata a rango di potenza mondiale grazie alla guerra contro la Spagna e già piena di contraddizioni al proprio interno, le immagini di Hine sono una boccata d’ossigeno poiché riconoscono e in molti casi restituiscono dignità agli oppressi di ogni tempo e, in una parola, divengono universali. Quel mito fondante di un’America aperta e generosa con tutti che Hawthorne aveva demolito sin dalle prime pagine de “La lettera scarlatta”, Hine lo manda definitivamente in pezzi con le sue fotografie, forse più e meglio di interi saggi di Economia. «Lo scopo di far lavorare i bambini non è quello di insegnare loro un mestiere, ma quello di sfruttarli. È uno scempio di giovani vite.» scrisse Hine. E dobbiamo qui coscientemente ricordare che essi lavoravano né più né meno come gli adulti per dodici, tredici ore al giorno, per pochi spiccioli quando andava bene. Un vasto esercito di riserva sottopagato e manovrabile, braccia e gambe fresche per gli insaziabili appetiti dei Carnegie o dei Rockefeller, che al primo accenno di ribellione non esitavano a far intervenire la Guardia nazionale o gli agenti della famigerata Pinkerton, come nel massacro dei minatori di Ludlow in Colorado. L’immensa 1931 con le riprese della costruzione dell’Empire State Building e con la famosa immagine di un gruppo di operai che pranzano seduti su una sbarra di ferro sospesa nel vuoto. Paradossalmente il cantore degli oppressi e dei diseredati, durante la Grande Depressione, celebrerà la forza operaia e la verticalizzazione della città, in un crescendo di ottimismo che sembrerebbe mal conciliarsi con il resto della sua produzione. Ma provando a leggerlo a posteriori questo ultimo e immane impegno vedremmo che un altro cerchio si chiude. È la fine di un particolare ‘romanzo sociale americano’, dove all’inizio vi sono gli immigrati con le loro valigie di cartone, quindi i loro figli e loro stessi chiusi nell’universo concentrazionario di un lavoro disumano e infine la consapevolezza di essere i fondatori di un nuovo mondo. E qui Hine sembra anticipare i canoni dell’arte del realismo socialista, con i primi piani insistiti e le riprese dal basso dei ‘derrick’ e delle impalcature, come d’altronde farà Rodchenko in Russia o Moholy-Nagy in Germania. Nel corso della lunga crisi economica degli anni ’30 egli non riceverà quasi più commissioni da parte di riviste o grandi società come era quella dell’Empire State Building e non farà neanche parte della Farm Security Administration, l’ente rooseveltiano di aiuti ai farmers del Midwest, dove invece operarono fotografi come Walker Evans e Dorothea Lange. Verrà riscoperto e celebrato soltanto pochi mesi prima della sua morte avvenuta nel novembre del 1940 in una baracca di New York. Uno dei più consapevoli fotografi dell’epoca che, grazie alle sue immagini, aveva fatto approvare
l’atto che vietava nel 1916 il lavoro minorile, se ne andava così, povero come coloro che aveva incontrato per anni sulla stessa strada.
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