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Happy Puccini

Gennaio 04
15:51 2011

Un’altra serata al piano – bar non l’avrebbe retta.

Erano ormai dodici anni che Marcello si esibiva quasi tutte le sere in quei tre locali: il ristorante di lusso, l’hotel cinque stelle e il piano – bar. E quella sera gli toccava, appunto, il piano – bar.
La musica era la sua grande passione fin da piccolo, da quando con enormi sacrifici aveva frequentato il conservatorio parallelamente al liceo classico; erano stati anni di grande fatica quelli ma alla fine era riuscito a terminare entrambi e a diplomarsi maestro in pianoforte. Il suo talento l’aveva portato poi a suonare nei locali e ad allietare le serate di uomini ricchi e borghesi che si mostravano interessati alla musica classica “ma che”, sospirava lui “lo facevano solo per darsi un’aria da intellettuali”.
Con gli anni però la passione per la musica era andata affievolendosi; anche se aveva un repertorio molto vasto e variegato, da qualche tempo era stufo di esibirsi, non aveva più grossi stimoli a suonare Beethoven, Verdi o Puccini. Con gli anni aveva ulteriormente affinato la sua abilità, tanto da creare un proprio stile, molto apprezzato dal pubblico e dai gestori dei vari locali che, pur di trattenerlo, lo pagavano profumatamente. Lo stipendio però da solo non era una motivazione sufficiente a farlo andare avanti, c’era in lui qualcosa che non gli permetteva di essere felice, un lato oscuro che forse trapelava anche nelle sue esibizioni, perfette tecnicamente ma poco trascinanti, come se mancasse loro un elemento nuovo. Marcello aveva compreso questo, il suo orecchio allenato gli aveva sussurrato piano piano che “sì, in effetti qualcosa mancava”.
Eppure era strano, le note erano quelle, non ce n’erano altre; anche la sequenza era quella, altrimenti avrebbe stonato, chi mai avrebbe potuto trecento anni dopo criticare Beethoven e dire che – la sinfonia numero nove ha una nota di troppo oppure che quel mezzotono nella seconda parte andrebbe rivisto -. Una pazzia più che un sacrilegio!
Il tempo poi neanche a parlarne, anni e anni a litigare col metronomo erano serviti eccome, le opere dei più grandi compositori del settecento Marcello le conosceva a memoria e il ritmo giusto col quale suonare era ormai dentro di lui.
Cos’era allora? Possibile che nonostante tutto fosse perfetto si sentiva la mancanza di qualcosa di indefinibile?
La prima volta glielo disse una signora bionda e di una classe infinita, “…vede Maestro, lei è perfetto tecnicamente ma le manca quel quid che la renderebbe irresistibile”.
Al termine della serata però Marcello riuscì a trovare il quid di cui parlava la signora perché glielo portò direttamente in camera e lì se la suonò per bene.
Lui era infatti non solo un divino pianista, ma anche un grandissimo amatore; tutti i grandi artisti sanno farsi apprezzare dalle donne perché amarle per loro è come interpretare una melodia, cercare sempre la nota giusta e suonare quella e solo quella in quel preciso momento, non un attimo dopo né un attimo prima. Farlo romperebbe tutta l’armonia, una frase o un gesto fuori luogo rovinerebbe tutta la poesia, lasciando il corteggiatore senza fiato e senza nemmeno capire in cosa o dove aver sbagliato.
Marcello sapeva suonare e sapeva amare, questa era una sua sicurezza; in dodici anni di carriera aveva suonato per circa duemilaottocento serate e aveva amato esattamente cinquantadue donne, la maggior parte conosciute nelle serate in cui suonava nell’hotel.
Intanto la serata al piano – bar si avvicinava, Marcello non sapeva se andarci o meno, suonare per l’ennesima volta la ballata di Puccini non se la sentiva proprio, piuttosto avrebbe preferito una ballata folk o una canzone dei Metallica, rock duro.
Quel pomeriggio ripensò alla gentile critica di quella signora e si convinse anche lui che in fondo alle sue esibizioni mancasse qualcosa. Doveva però essere qualcosa di indefinito perché ogni elemento era al posto giusto nel momento giusto, non c’erano errori o mancanze apparentemente.
Poi Marcello rise di gusto quando pensò che la signora stessa non aveva avuto da ridire successivamente, nella performance privata che le aveva suonato con musica da camera.
Cos’era che mancava allora? Era qualcosa di indefinibile, qualcosa di surreale, che sfuggiva al controllo delle sue mani e della sua testa.
I minuti passavano e in Marcello cresceva sempre più la convinzione che quella sera non avrebbe suonato nessuno dei grandi compositori del suo repertorio, si sarebbe inventato qualcosa, avrebbe fatto un colpo di teatro, a costo di giocarsi la carriera. Questa era una sua sicurezza.
Il suo cruccio più grande era quello di non aver mai composto un solo pezzo; era sì un ottimo interprete, riproduceva alla grande qualsiasi compositore, ma era appunto una riproduzione, di suo non c’era niente a parte un talento assoluto nel suonare una nota dopo l’altra nella sequenza e nel ritmo giusti.
Marcello avrebbe tanto desiderato scrivere anche solo un pezzo che fosse completamente suo, che fosse nato dentro di lui e che fosse poi esploso con tutta la sua magnificenza in una sala da ballo; sarebbe stato un pezzo d’amore, avrebbe ricordato agli uditori baci sul lungomare, carezze nelle baite di montagna e parole sussurrate in mezzo ad una valle sorda a qualsiasi tipo di eco.
Tutto questo Marcello era in grado di farlo; conosceva benissimo la musica e anche le donne visto le cinquanta e passa che aveva posseduto. Fuggite dopo una sua sola esibizione ma pur sempre possedute.
“Forse” pensò Marcello, “in mezzo a tutte quelle donne che ho conosciuto si nasconde quel quid che mi manca e che non trapela”.
Anche questa era una sua sicurezza.
Pochi minuti prima delle venti si preparò di tutto punto, si fece una doccia con il bagnoschiuma alle fragranze aromatiche, indossò una camicia aperta sul petto villoso e una giacca di lino, poi prese le chiavi della Jaguar e si presentò come al solito al piano – bar.
I camerieri di sala lo videro armeggiare vicino al pianoforte come prima mai aveva fatto, non se ne preoccuparono minimamente, Marcello in dodici anni non aveva mai deluso.
Le signore ingioiellate nella platea sedevano davanti, i mariti e gli accompagnatori se ne stavano un po’ indietro, convinti e gelosi che le loro donne almeno per il tempo dell’esibizione non avrebbero avuto sguardi e sospiri che per Marcello.
Lui si guardò attorno, in quel momento i camerieri di sala e lo chef de rang ebbero l’impressione che Marcello per quella sera aveva davvero preparato qualcosa di strano, quasi di indefinibile, qualcosa di speciale.

Le dita lunghe e affusolate fremevano, gli occhi verdi di Marcello si incantarono, iniziò a ricordare quel giorno di febbraio in cui ebbe inizio la sua carriera di pianista e quella altrettanto gratificante di playboy; “se davvero c’è qualcosa che mi sfugge” pensò, “deve essere per forza o una donna o una nota di questi dodici anni”. Poi, come un santone caduto in trance, iniziò a suonare e a ricordare:

La Maddalena della prima ora, notte senza fine, fine a se stessa

Le luci bianche della camera illuminata e la paura nera di me intrappolato

La Maddalena, un debutto steccato e una spinta sul palcoscenico, a tradimento. Il suo.

Ignari al peccato ci consoliamo della nostra persa purezza. Peccato!

Silvia, le mie dediche contro i suoi silenzi, le sue sentenze insieme alle mie fughe.

Chi parte e chi arriva, stiamo insieme? No, devo andare a trovare una persona. Me.

Silvia chi eri?…non mi hai dato il tempo di averti, nascosta in un mese dimezzato.

Serena, ci siamo già visti? Quando? Loredana, quattro paia di calzini per il freddo,

Maria, con l’occhio “suono l’ultimo pezzo e poi ti raggiungo, è la 413”. Barbara.

Non posso fermarmi. Luciana, Simona, il ritorno di Serena, Federica e Claire eva.

Chiara, Veronica, Veronica e Sabrina, Mascia e Lucrezia…Benedetta, Elisa,

Ti-ti-ti Tiziana, Paola, Miriam, Monica, Alessia, Sara, Francesca, sarà Sara,

Patrizia, Martina, Cristina, Christina, Cristiana, Sara, Sara, Sara, Sara, Sara.

Quando Marcello ebbe finito la platea rimase di stucco; nessun applauso, solo tante facce sorprese e imbarazzate. La sua ultima esibizione fu diversa da come tutti si aspettavano, altrochè musica classica, quella che il pianista aveva suonato era un pezzo assolutamente sconosciuto, moderno anzi di più, all’avanguardia. Da amare alla follia o da detestare, senza mezze misure.
A quel punto Marcello guardò il pianoforte che lo aveva accompagnato per tanti anni, fece un grosso sorriso, salutò il pubblico e si congedò.
I camerieri di sala con solerzia risistemarono le sedie e, quando uno di loro si avvicinò al pianoforte vide che su ogni tasto d’avorio era impresso il nome di una donna. Marcello prima dell’esibizione aveva scritto con un pennarello rosso i nomi di tutte le sue donne sulla tastiera, un nome per ogni nota, una nota per ogni donna, come fanno i bambini che per imparare a suonare la pianola scrivono il nome delle note su ogni tasto: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si.
I camerieri si accorsero solo allora che l’ultima esibizione di Marcello coincideva con la sua prima composizione, quella ballata unica e irripetibile che avevano appena sentito e già dimenticato.
Il più curioso vide che fra tutti i tasti uno era quello più sbiadito, quello che fra tutti i cinquantadue aveva perso più colore perché pigiato più degli altri, quello su cui c’era scritto “Sara”.
Tutti si guardarono e capirono che fra tutte le donne che Marcello aveva avuto in quei dodici anni solo una gli era rimasta nel cuore, Sara. Questa era una loro sicurezza.
“Se n’è andato per sempre? E dove?” chiese il direttore di sala.
Un altro cameriere allungò l’indice destro e spinse l’ultima nota della prima composizione di Marcello, ne uscì una nota acuta, lontana, appena percettibile: Si, Si, Si, Si, Si.

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