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Haneke guarda la terza età con ‘Amour’

Haneke guarda la terza età con ‘Amour’
Aprile 07
21:23 2013

amourSe un titolo che crediamo ben riuscito non basta a definire uno dei propri cineasti preferiti, tre titoli cominciano a diventare una bella coincidenza: è il caso dell’austriaco Michael Haneke, che dopo i suoi ultimi lavori Funny Games (2007) e Il nastro bianco (2009), ha diretto Amour (2012) con Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, splendidi ottantenni entrambi, meritata Palma d’Oro a Cannes e un Oscar come miglior film straniero.

Dopo i disarmanti (disarmati) padroni di casa di Funny Games, preda di violenti bravi ragazzi, l’ipocrita villaggio de Il nastro bianco, nel quale cova il germe razzista che caratterizzò il nazismo (un puritanesimo male interpretato aleggia su una comunità senza scrupolo), con Amour Haneke ci mostra cosa accade nella vita tranquilla di due anziani quando lei resta in parte paralizzata a seguito di un ictus. Lo fa con un film potente che costringe, da subito, lo spettatore dentro inquadrature asfittiche che conducono l’occhio esattamente dove vuole il regista. Nell’appartamento dei due, dapprima negli spazi consentiti ad un semplice visitatore (solo una parte dell’ingresso, la cucina) dove si consuma il dramma di un male che prima di diventare anticamera della fine per le conseguenze riportate dal corpo della povera Anne, diventa la ‘fine’ agli occhi degli altri. Per quanto Georges se la cavi molto bene ad organizzare l’assistenza, il tempo trascorso in comune (sono persone, i nostri, ex musicisti, che oltre la vita biologica ne hanno costruita una culturale ben solida nutrita di politica, letture e concerti); e nonostante il loro rapporto sia scandito dai tempi del male, ma lo è anche da un consueto chiacchiericcio durante i parchi pasti e da una complicità capace di farsi seduzione, agli occhi di chi li osserva la malattia li fa depositari solo di disgrazia, non più della loro lunga esperienza. È così persino per la figlia Eva (Isabelle Huppert), musicista che vive lontano con il marito, un figlio, e comuni preoccupazioni borghesi come il tradimento del marito di fronte all’ensemble musicale condiviso; ed anche per l’amato giovane allievo di Anne, già noto concertista, che si congederà da loro offendendo il recente incontro con un biglietto di rammarico per la ‘tristezza’ della malattia (ci viene il dubbio che sia anche una esplicita critica a certi sensibili artisti di successo tutti talento e niente anima…). Se per Anne e Georges la vita vale sempre la pena di essere vissuta, ci pensano gli altri a mettere all’angolo le due complesse esistenze, facendone solo due vecchi ‘rimbambiti’ come rimarcherà una badante allontanata da casa perché nell’esercizio delle sue funzioni spazzola Anne come una bambola senza sentimenti, parlandole come ad un fantoccio amorfo (senza senno). Nonostante l’aggravarsi della malattia, accompagnata dalla fatica quotidiana e dall’allontanamento degli amici attorno, o dalla loro naturale scomparsa, i due vibrano con la vita pulsante della casa: gli angoli dei libri e della musica d’ascolto, la passione del pianoforte e gli album fotografici sfogliati per ritrovare la bellezza vissuta, i viaggi amati, l’elasticità di corpi che si ostinano a voler essere altro. Vivono ragionevolmente la loro condizione senza rimpianti, appagati dal farsi compagnia, consapevoli di un ‘oggi’ che dimentica molte cose nel nome del piacere di stare assieme. Con l’aggravarsi della malattia, Georges troverà sempre più penoso mostrare Anne ad altri, anche alla propria figlia, la quale peraltro non ha che da ridire su situazioni che prima giudicava ragionevoli, temendo, forse, con la scomparsa della madre la propria (?), constatando l’inutilità di panacee di fronte all’irreversibile condizione materna. Georges deciderà per Anne e per sé una strana forma di libertà; un oblio terribile e reale, proprio mentre il ricordo leggero dei suoi giorni di bambino infelice in una colonia di montagna farà sorridere lo spettatore, nell’allargarsi ormai libero delle inquadrature di macchina che non vagano però, mai, nella casa come un terzo occhio estraneo, ma ne sfiorano gli spazi con estremo rispetto. Eva potrà contemplare il vuoto dell’abitazione ancora viva tra i viventi… chi resta è libero di continuare a pensare la terza età come il tempo quieto e sereno del ricordo, uno ‘scaffale’ esistenziale dove riporre quello che ‘è stato’. Un tempo difficile, verrebbe invece da dire, ma pieno di una non trascurabile tensione vitale, nutrita dall’amore per l’altro da se, dall’amore per la vita.

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