GRAND TOUR: CHARLES DICKENS, IL CARNEVALE ROMANO.
Charles Dickens nasce a Landport, sobborgo di Portsmouth (Regno Unito) nel 1812 e muore a Higham nel 1870. Considerato uno dei maggiori scrittori, è il fondatore del romanzo a sfondo sociale, dove il Canto di Natale è una delle sue opere più famose. Dal suo “resoconto di viaggio” datato 1845 sono di seguito riportati alcuni passi inerenti al carnevale romano. Il testo è stato tratto dal libro: “Viaggiatori stranieri a Roma e nel Lazio” edito dall’Assessorato al Turismo Regione Lazio, Master print s.r.l. Roma, 1992.
<<Venerdì e sabato erano stati giorni di festa solenne, e poiché la domenica è un dies non nella tradizione del carnevale, avevamo atteso, con una certa impazienza e curiosità, l’inizio della nuova settimana: lunedì e martedì erano infatti le ultime, nonché le migliori giornate del carnevale. Il lunedì pomeriggio, verso l’una o le due, era cominciato un gran sferragliare di carri nel cortile dell’albergo; un andirivieni di domestici; e, di tanto in tanto, la fuggevole comparsa da una soglia o un balcone, di qualche straniero in costume, dispersosi tra la confusione: sempre troppo poco avvezzo, ad indossare il costume con disinvoltura, e a sfidare la pubblica opinione. Tutti i carri erano aperti, e avevano il rivestimento coperto da tela di cotone bianco o cotonella, per proteggere gli ornamenti dal lancio incessante di zuccherini; e la gente si affollava e si accalcava all’interno di ogni carro che era in attesa dei suoi occupanti, e degli enormi sacchi, e cesti stracolmi di coriandoli, oltre a una tale quantità di fiori, raccolti in mazzetti… Poi, quando i carri cominciarono a prender su la loro ciurma, e ad avviarsi, anche noi salimmo sul nostro e partimmo, armati di mascherine di filo metallico… Il Corso è una strada lunga un miglio…è il punto più importante, il cuore del carnevale. Ma poiché tutte le strade in cui si celebra il carnevale sono sorvegliate da guardie a cavallo, è più opportuno che i carri sfilino prima, lungo un’altra delle vie principali, raggiungendo poi il Corso dalla parte opposta a Piazza del popolo: che è uno dei due estremi. Dopo un tragitto percorso…della durata di circa un quarto d’ora, raggiungemmo il Corso; e sarebbe difficile immaginare qualcosa di più gaio, più allegro e vivace della scena che ci trovammo di fronte. Da ognuno degli innumerevoli balconi…sventolavano, nel sole splendente, arazzi dal rosso, dal verde, dal blu brillante, e in bianco e oro. Dalle finestre, dai parapetti, e dai tetti delle case, si libravano e cadevano in strada stelle filanti dai più ricchi colori, e drappeggi dalle tinte più fastose e splendenti. Le vetrine dei negozi erano state smontate, e si erano riempite di gente, come palchi di un teatro. Le porte erano state sganciate dai cardini, e all’interno erano dispiegati dei lunghi arazzi raffiguranti dei boschetti, ornati da sempreverdi e ghirlande di fiori; i ponteggi erano diventati degli sfarzosi templi, raggianti d’argento, oro e cremisi; e in ogni angolo e ogni cantuccio, dal marciapiede alle ciminiere, dove si scorgevano brillare gli occhi delle donne, la gente era lì che ballava, rideva, e sfavillava come luce sull’acqua. Ogni forma di seducente follia nel vestire era lì rappresentata. Assurde giacchette scarlatte; vecchie, pittoresche pettorine più maliziose degli eleganti corpetti; giacche da ussaro, più strette e tese dell’uva spina matura; sottili copricapo greci, messi di traverso, e aggrappati ai capelli scuri, dio solo sa come; in ogni vestito era rappresentata un’indole: selvaggia, bizzarra, audace, timida, stizzosa, o scervellata; e ogni indole era ormai bella e dimenticata in quel tumulto di allegria… I carri stavano ora affiancati tre a tre; negli spazi più ampi anche a quattro… In alcuni i cavalli avevano delle magnifiche bardature, mentre in altri erano adorni di nastri fioriti che correvano dalla testa fino alla coda. Alcuni erano guidati da cocchieri con enormi teste a due facce: una che sbirciava i cavalli: l’altra ammiccava verso il carro: entrambe risonanti, sotto la grandine di zuccherini. Altri cocchieri erano vestiti da donna, e indossavano lunghi orecchini, ma niente cuffiette… Invece di sedere nei carri, sui sedili, le affascinanti donne romane, per meglio vedere e farsi vedere, stavano sedute in cima ai carrozzoni con i piedi poggiati sulle imbottiture a cassetta –e allora, oh! Che gonne svolazzanti e che graziose camicette, che forme prosperose e facce sorridenti, e che aggraziate, allegre e amabili visioni regalavano! (…) Uomini e ragazzi che si aggrappavano alle ruote dei carri, si attaccavano dietro, o ne seguivano la scia…maschere a piedi (in genere le più buffe) che facevano una simpatica caricatura agli abiti di corte, e guardavano la folla attraverso enormi occhiali…lunghe file di Pulcinella che si menavano gran botte con camere d’aria gonfie e attaccate in cima a delle bacchette; una carovana piena di matti, che urlavano e si dimenavano a più non posso; un carro pieno di seriosi mammalucchi, e al centro il vessillo con la coda di cavallo; un gruppo di zingare impegnate in un terribile scontro con un carico di marinai; un uomo scimmia arrampicato su un palo, e circondato da strani animali con la faccia di maiale, e la coda di leone, che erano trascinati per le braccia o venivano simpaticamente portati in spalla… In realtà, se si considera il numero delle maschere, non erano poi tanti i personaggi rappresentati, ma la cosa più divertente in quella scena era l’assoluto buon umore…quel completo abbandono al bizzarro umore del momento –un abbandono così perfetto, così contagioso, così irresistibile, che anche lo straniero più serioso si ritrova, come il più accanito dei romani, a combattere immerso fino alla cintola tra fiori e zuccherini, senza riuscire a pensare ad altro… Come facciano a sgombrare tutto, in tempo per le corse che hanno luogo alle cinque, e come facciano i cavalli a correre senza travolgere la gente, proprio non saprei dire. (…) Al segnale convenuto, i cavalli partono. Vanno come il vento…per tutta la lunghezza del Corso: senza fantino, come tutto il mondo sa… Ma se lo spettacolo è così vivace, allegro, e ricco di folla il penultimo giorno, il giorno conclusivo raggiunge vette di tali sgargianti colori, tale fermento, e tale giocosa baraonda, che al solo ricordo mi gira la testa anche adesso. (…) La corsa viene ripetuta; fanno nuovamente fuoco i cannoni; la corsa finisce; e i premi vengono conquistati. (…) Ed è allora che parte il gioco dei moccoletti, l’ultima delle divertenti follie del carnevale…al calar della sera cominciano qua e là a balenare le luci: alle finestre, sui tetti, ai balconi, nei carri, in mano ai passanti… A quel punto, tutti i presenti hanno un unico, avvincente proposito: vale a dire, spegnere le candele degli altri, e mantenere accesa la propria; e tutti, uomini e donne, o bambini, gentiluomini, o signore, principi o contadini, locali o forestieri, urlano, strillano, e gridano a squarciagola, senza tregua, per schernire i perdenti, “Senza Moccolo, Senza Moccolo!”(…)-quando all’improvviso, nel bel mezzo delle più entusiaste grida, e nel pieno dell’estasi sportiva, l’Ave Maria risuona dai campanili delle chiese, e il carnevale finisce in un istante- spento con un soffio come un moccolo! (…) Il mio precedente riferimento al carnevale mi rammenta come esso venga considerato la farsa di un lutto (nella cerimonia conclusiva), tenuto per i giochi e i divertimenti che precedono la Quaresima…>>
Foto: Ippolito Caffi (1809-1866), La festa dei Moccoletti (il carnevale a Roma), olio su tela di altezza 64.5 cm e larghezza 80 cm.
GRAND TOUR: CHARLES DICKENS, IL CARNEVALE ROMANO.
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