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Gogol e Roma – 3

Ottobre 16
10:16 2010

Tutti gli aspetti tipici dell’essere, Roma, tagliata fuori dal flusso vivo della storia moderna vengono letti da Gogol in chiave positiva, sotto la suggestione estetica del “pittoresco” a base naturalistica; sicché, quanto più vasto è il deserto e alto il silenzio, tanto maggiore è la bellezza dei luoghi che appaiono entro la cornice sfumata della sua veduta. Un parigino convinto impazzirebbe in quel silenzio.

Ma Gogol sembra, piuttosto, un parigino pentito.

 

Il frammento Roma è, per certi versi, non altro che il resoconto di una disillusione e di un amore infranto verso l’Europa moderna che Parigi incarna e rappresenta. È sostanzialmente un racconto di formazione, di maturazione culturale e spirituale, che vede protagonista un giovane principe romano, alter ego di Gogol. Stanco della soffocante vita romana e della ristrettissima cultura impartitagli da un ignorantissimo e corpulento abate, viene mandato dal padre a Lucca, dove studia per sei anni e dove ha già modo di ampliare la propria visuale sul mondo per aspirare, di conseguenza, a panorami sempre maggiori. Ma poi il padre gli ordina di terminare gli studi proprio a Parigi! Quale gioia, quale emozione! Il cuore gli balza in petto quando attraversa la frontiera francese. E quindi Parigi, città lungamente sognata, di cui s’inebria e si entusiasma. L’aspetto grandioso, il movimento frenetico, le luci multicolori. Il giovane diventa un perfetto flâneur: passa le giornate bighellonando per Parigi, immergendosi nella vita pulsante delle sue strade, dei suoi caffè, dei suoi teatri. La sua vita prende “un aspetto ampio e multiforme, abbracciando il campo immenso e svariato della cultura europea”. Ogni giorno trascorso in quel tourbillon gli toglie un velo dagli occhi, rafforzandogli lo sguardo: rendendolo capace di vedere cose prima neppure notate. Ma, come l’infatuazione per una bella donna che si è subito concessa, questo entusiasmo è destinato presto ad avvizzire. Parigi è l’amante da cui si fugge nauseati, ottenuto quel che si voleva. Il giovane adesso sente che tutta quella multiforme attività scompare, “senza lasciare nell’animo nessun fecondo deposito”. Dentro la frenesia, l’inazione. Parole, più che fatti: e dentro le parole, il nulla. E Gogol cita, dal Misogallo dell’Alfieri, una definizione satirica dei francesi:

Tutto fanno, nulla sanno,

Tutto sanno, nulla fanno:

Gira, volta son Francesi,

Più li pesi, men ti danno.

Parigi e i francesi sono venuti mortalmente a noia al giovane principe romano. Lo prende la malinconia di Roma, l’acuto struggente bisogno di farvi ritorno. Come un uomo che, stanco dell’amante, ricominci a desiderare la moglie. Giunge addirittura a proposito la lettera dello zio che, comunicandogli la morte del padre, lo prega di recarsi subito a Roma per occuparsi del patrimonio di famiglia. Il giovane non se lo fa ripetere. Lascia la Francia di gran carriera e, nel farlo, si sente togliere dal cuore un “enorme peso”. Ed ecco il bacio dell’Italia, l’abbraccio di ben trovato, e l’ebbrezza del suo cuore in festa.

Sarebbe difficile definire il sentimento che l’invase alla vista della prima città italiana, la magnifica Genova. (…) Con la stessa gioiosa disposizione d’animo rivide Livorno, Pisa quasi deserta, Firenze, che prima conosceva molto male. (…) Poi passò gli Appennini, sempre accompagnato da quell’amore sereno, e quando finalmente, dopo un viaggio di sei giorni, nella chiara lontananza del cielo limpido, gli apparve rotondeggiante la cupola meravigliosa … oh! quanti sentimenti gli si affollarono in cuore improvvisi! Egli non avrebbe saputo né potuto esprimerli: osservava con amore ogni poggetto, ogni pendio. Ed ecco finalmente Ponte Molle, le porte della città; gli venne incontro abbracciandolo la splendida Piazza del Popolo, e Monte Pincio con le sue terrazze, le scale, le statue e la gente che passeggiava lassù in cima. Dio, come gli batteva il cuore!

Il giovane principe romano, per capire e amare davvero Roma, ha avuto bisogno di “farsi lo sguardo” a Parigi, prima, e poi di tornare a casa per rivedere tutto sotto nuova luce, attraverso la prospettiva del “reduce”, del “figliol prodigo”. Ed ecco che Roma, con le sue infinite stratificazioni storiche sovrapposte, ma tutte compresenti, emerge lentamente al nuovo sguardo, come un frutto che apre la sua scorza e si rivela. Il giovane principe gira per Roma in caccia di meraviglie; e ne trova a profusione, in ogni angolo: il quadro maestoso della città cresce “giorno per giorno sotto i suoi occhi”, anche nei suoi aspetti più banali. Ma la banalità è negli occhi di chi guarda. Il giovane principe s’innamora per sempre di Roma, e compie la sua scelta definitiva a sostegno di un mondo apparentemente “sereno” e fondato su valori umanistici: per la tradizione, e quindi contro la rumorosa insorgenza della modernità volgare, profanante, materialistica, priva di scrupoli. E infatti si chiede, come un romantico “no global” in anticipo sui tempi:

Non deriva proprio dalla moda quella freddezza indifferente che domina tutto il nostro tempo, quel meschino calcolo commerciale, quel precoce ottundersi di sentimenti cui non è stato concesso il tempo di crescere e di svilupparsi? Le immagini erano state tolte dal tempio, e la casa di Dio non era più tale; pipistrelli e spiriti impuri vi abitavano.

Ma questa nausea non impedisce al giovane principe romano di apprezzare le bellezze paesaggistiche e umane della sua città; anzi, per contrasto, tanto più e tanto meglio. Ed ecco la folgore abbacinante dello sguardo dell’Annunziata di Albano, la bellissima tra le “Minenti”, ovvero le matrone romane che ogni anno nel mese di giugno festeggiavano ad Albano laziale (l’antica Albalonga) il gemellaggio con Roma. Da questo incontro nasce lo spunto occasionale che dà vita all’intreccio, su cui si sovrappone, in retrospettiva, il percorso di formazione del principe. L’immagine della ragazza “s’imprime profondamente nel cuore di chi guarda” (ed è impossibile non guardare): “tutto in lei rappresenta l’apice più elevato della creazione (…) che ricorda la bellezza antica, fino all’ultimo dito del piede. Dovunque vada, ella forma un quadro con le cose circostanti (…) tutto diventa più bello quando Annunziata è presente”. Il principe la rivede durante il carnevale romano, e a quel punto vuole assolutamente sapere chi è, conoscerla, rincontrarla. Pensa allora di affidarsi a un popolano tuttofare, tale Peppe, per avere notizie di lei.

Ma c’è una bellezza ancora più grande, capace di fargli dimenticare – pare assurdo – lo splendore della ragazza, fino a bruciare nel silenzio dell’indicibile le potenzialità stesse della scrittura. Una bellezza epifanica e assoluta: un brivido che rapisce, smemora, spaura. Si resta annichiliti a contemplare, oltre lo sguardo, oltre il panorama. È la visione che brucia la parola. Ed è forse una delle ragioni per cui il racconto resta incompiuto. (Fine)

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