Gogol e Roma – 2
Poniamoci sulle tracce biografiche di Gogol a Roma. È la meta finale di un viaggio lunghissimo attraverso l’Europa, che vede lo scrittore ad Amburgo, Brema, Dusseldorf, Colonia, Magonza, Baden-Baden. Gogol sogna di arrivare a Roma, ma negli stati pontifici infuria il colera. Si ferma tre mesi in Svizzera, poi a Parigi, quindi a Roma, dove entra per la prima volta il 26 marzo 1837, dove fa appena in tempo ad assistere alla messa celebrata in San Pietro da papa Gregorio XVI per il Sabato Santo. Si sistema al rione Colonna, in via di Isidoro, 17: «Rimpetto la chiesa di San Isidoro, vicino alla Piazza Barberini», scrive in una lettera. Occupa un «salone antico con quadri e statue» presso il signor Celli, a 30 franchi al mese. La casa non esiste più: fu demolita per la realizzazione di via Veneto. Gogol trova Roma piuttosto economica: il cibo è appetitoso, abbondante e a buon mercato. Si sente sereno e soddisfatto, e con questo stato d’animo visita chiese, musei, ruderi e monumenti, rimanendone sempre incantato. Ma non basta mai. Scrive in una lettera: «Vedo ogni giorno qualcosa, ma c’è un abisso di roba da guardare ancora. Solo qui si comprende che cosa sia l’Arte». Il 27 giugno 1837, dopo tre mesi di permanenza, Gogol parte per la Germania e poi, di lì, per la Svizzera. Può tornare a Roma non prima della fine di ottobre, giacché nel frattempo vi si è diffusa una nuova epidemia di colera. Non vede l’ora di varcare le Alpi e, quando finalmente può mettersi in viaggio, prorompe in un vero e proprio inno di gioia e d’amore per la sua diletta città. Scrive a Maria Balàbina, la sua giovane allieva russa:
Mentre ero in Svizzera dove, a causa del colera, rimasi molto più a lungo del previsto, non vedevo l’ora di partire per Roma … E quando infine vidi Roma per la seconda volta, mi apparve ancora infinitamente migliore di prima. Mi pareva di rivedere la mia patria da cui fossi stato assente per vari anni, e in cui avessero vissuto nel frattempo i miei pensieri. Io qui ritrovo la patria dell’anima mia, vissuta qui prima di me, prima che io fossi venuto al mondo. Ho ritrovato lo stesso cielo, a volte tutto argenteo, rivestito da non so quali riflessi di seta, a volte azzurro quale ama mostrarsi attraverso gli archi del Colosseo. Ho ritrovato i cipressi, gli obelischi e le cime arrotondate dei pini che paiono talvolta navigare nello spazio. Ho ritrovato l’atmosfera pura, le lontananze nitide. Ho ritrovato le cupole eterne, maestosamente tondeggianti nell’aria.
Il nuovo indirizzo è via Felice 126 (oggi via Sistina 125), dove abitò dal 1838 al 1842 scrivendovi il suo capolavoro: le Anime morte. Proprio a quest’altezza, nel 1901, la “colonia russa” di Roma fece apporre una lapide marmorea (tuttora esistente) sovrastata dal busto bronzeo in rilievo dello scrittore, con epigrafe bilingue e, in basso, una corona d’alloro, pure in bronzo. Il terzo soggiorno di Gogol a Roma va dal 24 ottobre 1845 alla primavera del 1846, in via della Croce 8 (a due passi da Piazza di Spagna e dallo storico Caffè Greco), al terzo piano del palazzo che il principe polacco Stanislao Poniatowski si era fatto costruire da Giuseppe Valadier.
Ma perché a Roma Gogol si sentiva tanto felice? perché vi percepiva un mistero grande, qualcosa di «meraviglioso»? Che cosa contribuiva a creare questa spontanea, profonda affinità? Forse anche ciò che Roma finiva per apparirgli e rappresentare sul piano storico, ideologico, sociale. Il regno di una conservazione eterna ma equilibrata, all’incrocio fra cultura e natura. A dispetto di opere di denuncia, satiriche e corrosive, come Il cappotto, il Naso, Il revisore, Gogol non era un progressista. Propendeva verso valori tradizionalistici e conservatori, ed era tormentato dal dubbio che i propri scritti potessero nuocere al lettore: aleggiava in lui un misticismo pronto a trasformarsi (come poi in effetti accadrà) in cupa ossessione religiosa. Da un lato la frusta sferzante dello scrittore satirico, dall’altro l’acquasantiera e la voce bolsa del predicatore. Il moralista esce del tutto allo scoperto nei Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici, che gli frutta le dure rampogne del critico Belinskij, deluso come altri per aver equivocato sulla vera natura dello scrittore. Proprio questa indole intrinseca di moralista sembra fatta apposta per entrare in sintonia con il clima tradizionalista e patriarcale della città eterna. E Roma gli pare, in fin dei conti, molto più democratica di Parigi, madre della democrazia moderna: calda, vivace e umana Roma, quanto fredda, razionale e superficiale Parigi. Si prenda ad esempio l’uguaglianza antica e spontanea dell’osteria romana, dove – dinanzi alla verità del vino – si annullano tutte le distanze sociali. Gogol polemizza contro i luoghi comuni di origine protestante e illuminista su una Roma decaduta, sporca, retriva, pullulante di accattoni e parassiti. C’è invece una società aperta, liberale, arguta, fondata su valori eterni perché tradizionali, e tradizionali perché eterni. Scrive appunto in Roma: «Infine questo è un popolo in cui è vivo il senso della dignità personale : quello di Roma è un popolo e non plebe, e porta ancora radicati dentro di sé i retti principii del tempo degli antichi Quiriti». I romani che Gogol vede gli sembrano pieni di naturale buon senso; vivaci e originali e dotati di istinto artistico anche quando semplici e incolti; bonari, giovanilmente generosi e intelligenti e allegri e sinceri. Le conversazioni a Roma sono lontane dalle noiose e anaffettive chiacchiere di società in uso tra gli europei. Insomma: un popolo «forte e ancora vergine, davanti al quale sembrava aprirsi un grande avvenire» Gli illuministi sentono a Roma un greve odor di morte; Gogol vi coglie invece una «serenità limpida e solenne», una grandezza che ne trasfigura ogni elemento, anche i più normali e quotidiani: il «mercato brulicante di vita», il «grido vivace di un pescivendolo», il «venditore di limoni», l’«aspetto meschino delle strade, buie, disadorne», il «gregge di capre» che si riposa
sul selciato, le «grida dei bambini», l’«invisibile presenza su tutto di un chiaro, solenne silenzio» che avvolge uomini e cose. Una città che egli si diverte ad inseguire e a descrivere anche nei luoghi più riposti e segreti, come le «viuzze isolate». Gustosissimi cammei di colore locale, che interrompono continuamente in senso digressivo la già piuttosto esile narrazione, da cui emerge l’immagine complessiva, ancorché stratificata, di una città che proprio il governo sacerdotale avrebbe preservato dal flusso pernicioso della storia, conservandone l’intima personalità, cioè la nobile fierezza d’accento. Ma il quadro d’assieme appare idillico, trasfigurato, troppo edulcorato rispetto alla realtà. Per esempio quando scrive, a proposito del popolo romano, che «la condizione stessa di povertà e di bisogno, conseguenza inevitabile di un governo d’immobilismo, non lo induce ad una trista attività criminale». Giacché a Roma «la stessa indigenza si presenta sotto un aspetto sereno, spensierato, ignaro del dolore e delle lacrime». Lo scrittore non sembra polemizzare contro questo «governo d’immobilismo», che pure ammette, quasi considerandolo con rassegnazione, componente inevitabile di un quadro più vasto e complesso. Sembrano sfuggirgli – o è lui che elude volontariamente – la corruzione del potere temporale, l’anacronismo di molte istituzioni, e le stesse coltellate che, a quei tempi, quasi ogni giorno insanguinano le strade della città. Le armi gogoliane, affilate e vibranti quando si tratta di parlare della Russia, si spuntano – come per eccesso di rispetto e di pudore – dinanzi alla magnificenza della città eterna. I romani di Gogol sono troppo buoni per essere veri. (Continua)
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