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Gogol e Roma – 1

Aprile 17
08:44 2010

Di Nicolaj Vasilievich Gogol (1809-1852) si è recentemente celebrato il bicentenario della nascita. Roma era importante per Gogol, e Gogol, evidentemente, lo è per Roma, essendosi tenuta, a Roma, una nutrita serie di rievocazioni, col patrocinio dell’Ambasciata russa, da settembre a ottobre 2009

(al Caffè Greco, due mostre a Castel S. Angelo, proiezione di film tratti dai suoi libri alla Sala Trevi; una conferenza del professor Jurij Mann sulle Anime morte all’Università di Roma “Tor Vergata”). Mole di eventi assolutamente non esagerata, perché Gogol è un grandissimo scrittore, della cui statura ci si rende tanto più conto in retrospettiva, anche attraverso i riflessi che proietta sulle altre vette emergenti e sull’atmosfera stessa di un’epoca storica di cruciale importanza, in cui si fondano le basi dell’estetica e della grande arte borghese, di respiro europeo, da cui proveniamo e che ancora in parte ci appartiene. Scrive Dostoevskij: «Siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol».  Il suo scavo realistico nell’uomo, finalizzato alla ricerca etica della verità, conduce alla constatazione che quella verità è per lo più paradossale, spesso indecidibile, aporetica, piena di assurdo. C’è un retrogusto amaro che si mescola all’ironia, alla caricatura, alla deformazione grottesca. Tutta la sua opera è, per certi versi, il”diario di un pazzo”: dando a questa parola l’accezione rivelatrice di Pirandello – il pazzo come colui che osa dire la verità, che il re è nudo, comportandosi da idiota, cioè da anello mancante e ingranaggio disfunzionale in un sistema vincolante di convenzioni, ipocrisie, regole sociali.  L’approccio realistico e proto-naturalistico al personaggio si mescola in uno shaker iridescente con la vena fantastica del romanticismo alla Hoffman: ne esce una mistura esplosiva e stralunata, straniante, prensile sul mondo e sulle cose, un magma di spontaneità e artificio, di fantasia senza limiti e, al contempo, di attenta osservazione. Gogol giunge a conclusioni universali. Ha piena coscienza della volgarità e dell’assurdità del mondo che lo circonda: lo trafigge con la lama acuminata della satira per correggerne l’inerzia e la deriva, perché in fondo è un moralista. Ma sa e sente che volgarità e assurdità non appartengono tanto alla particolare situazione della Russia di Nicola I, attestata ancora su immobilismi di stampo medievale, straziata da ingiustizie sociali conclamate e schiacciata nella morsa atroce di una mastodontica burocrazia; quanto, più in generale, alla condizione umana tout court. È di noi tutti che parla, del nostro «umano troppo umano» che confina e sconfina col «disumano» di ogni giorno. La banalità del male, che alberga e serpeggia dentro il cuore dell’uomo. Pensiamo a Il cappotto: l’impiegatuccio mite, timido, solitario (sorta di Fantozzi ante litteram) che, vaso di coccio in mezzo a fusti di ferro, viene sottomesso, deriso e tormentato dai colleghi. È una grande, dolente lezione di pietà. Tocca a Gogol sollevare sul piano dell’arte il “piccolo uomo”, con tutte le sue miserie e le tribolazioni, causate nello specifico dal gelo del nord, dai rigidi schemi burocratici della Russia zarista, dall’insensibilità umana, e anche dagli scherzi beffardi del destino. È attraverso l’inchiostro della sua penna che comincia a trapelare quella schiera di “cuori deboli” (come appunto Akakij Akakievich, che muore di crepacuore dopo il furto del suo agognato cappotto nuovo) e di eterni “umiliati e offesi”, che poi renderà definitivamente universale il genio di Dostoevskij. Ed ecco che, a questo punto, Roma non può non incontrasi col percorso gogoliano, in una vera e propria luce di predestinazione, nella misura in cui lo scrittore ucraino punta dritto al cuore dell’uomo, allo svelamento della sua misteriosa, ancipite essenza. Roma, alma mater, città eterna di iniziazioni e rivelazioni spirituali. Centro della cristianità. Tappa obbligata del Grand Tour europeo. Città mediterranea, congeniale a Gogol, anche perché egli anela al calore e alla luce del sud con tutta la sua anima, verso lo «splendido, magnifico cielo meridionale con le notti lunari». Anche Goethe vive Roma in termini di umana rivelazione. Scrive nel suo Viaggio in Italia: «Posso dire che solo a Roma ho provato che cosa propriamente voglia dire essere uomo». E Gogol: «Roma è la patria della mia anima. […] A Roma l’uomo è più vicino al cielo».  Il cielo di Roma rappresenta un capitolo a parte. Gogol ne era letteralmente affascinato. Lo trovava perfetto – quanto a velature, trasparenze e prospettive – per il suo finissimo occhio da pittore. Sono frequenti e vibratili, pulviscolari, le descrizioni del cielo romano nel frammento del romanzo incompiuto Annunziata, intitolato poi Roma. Estasiato dal clima solare di Roma e dalla verità umana di Trastevere, Gogol considerava la città eterna il luogo della sua felicità personale e creativa. Il buen retiro dove poter ritrovare se stesso e sentirsi in pace con il mondo. Roma era nelle sue corde, nelle sue vene, nel suo destino. Conoscerla aveva in realtà significato, per lui, ri-conoscerla: aveva sempre presentito che sarebbe stata il suo grande amore e che lì avrebbe portato a termine la sua maggiore impresa letteraria (Le anime morte). A Roma c’era Belli, ed è probabilmente anche grazie a lui, e ai suoi sonetti, conosciuti in anteprima, che Gogol impara a conoscere e a “leggere” la città eterna. «Erano fatti per intendersi», scrive Corrado Alvaro commentando la loro amicizia: anche per lo scrupolo morale che, alla fine dei loro anni, li portò entrambi al pensiero di bruciare le proprie opere. (Continua)

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