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Gloria e virtù: Dante, Leopardi, gli altri

Gennaio 09
10:51 2022

Gloria e virtù: Dante, Leopardi, gli altri
Il recente libro di Ado Onorati e Fabio Pierangeli

Un titolo emblematico questo posto in copertina del volumetto di Aldo Onorati e Fabio Pierangeli (Paolo Loffredo editore, Napoli 2021, pp. 100, Euro 11,50).

Il lavoro a quattro mani districa problematiche varie. Procediamo con ordine. La prima parte del testo, quella di Onorati, si articola in una disamina della “gloria” nella concezione dell’Alighieri, di Foscolo, Schopenhauer e Leopardi; la seconda parte, di Pierangeli, riprende il discorso su Leopardi ma interessandolo alla sua permanenza a Roma, e quindi approfondisce lati poco conosciuti della narrativa di Ippolito Nievo. In realtà, il concetto di “gloria”, anche se in modi diversi e con procedimenti del tutto personali, è il coagulo profondo di un libro che sembra diviso a metà, mentre è legato a un denominatore comune ai due autori: esplorare nell’inusitato figure che hanno scavato nell’animo umano con varianti che, naturalmente, procedono da un vertice comune. Vediamo nel dettaglio.

Onorati esamina il concetto che della “gloria” hanno i quattro autori sopra citati, esplicando però il significato che la parola ha avuto nei secoli e quindi al tempo in cui sono vissuti l’Alighieri, il Foscolo, il filosofo tedesco e il nostro Leopardi. Il termine “virtù” si affianca gnoseologicamente a “gloria”, perché in taluni periodi – specie nell’antichità – le due significazioni non erano separate. Dante, compatendo la spinta umana a raggiungere l’eccellenza, afferma che solo a Dio si addice la gloria; infatti, il primo canto del Paradiso si apre con questo termine astratto. Onorati mette però in contraddizione con se stesso l’Alighieri, perché, se da una parte egli constata la vacuità degli umani onori, dall’altra vi tende con tutte le forze. Ora non sta al recensore snodare le risposte che Onorati dà. Foscolo, anche lui, nelle lezioni universitarie stempera la realtà vera del “successo”, ma nei “Sepolcri” ribadisce il dovere di educare all’amor di patria gli animi: e quel lavoro farà rimanere il letterato nella memoria dei posteri. Invece Schopenhauer considera il problema della gloria: quella vera e quella falsa. La seconda viene in vita; la prima, quella reale ed eterna, arriva dopo la morte. Leopardi, infine, distrugge tutto, dimostrando l’inutilità della fatica per raggiungere una cosa irreale, peritura e che non serve né all’autore né ai posteri. Nel capitolo di chiusa “I quattro a confronto”, Onorati soppesa con la bilancia dell’orafo le similitudini e le differenze fra questi grandi nomi.

La seconda parte è scritta da Fabio Pierangeli, docente di Letteratura Italiana all’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, autore di straordinari studi su Ungaretti, Guido Morselli, Tomasi di Lampedusa e soprattutto su Leopardi (si raccomanda la lettura di “esplorazioni leopardiane”).

Ora, il titolo “Gloria e virtù” non è messo a caso. Infatti, se la prima parte esamina il concetto di gloria nei quattro autori citati, la seconda si addentra nel concetto di virtù in Leopardi e in Nievo.

Una sostanziale uniformità lega gli uomini nella mascherata della civiltà. Sembra di leggere Pasolini o qualche altro autore del pieno Novecento. E invece è Giacomo Leopardi a parlare, citato nel saggio di Pierangeli: 30 aprile del 1822, nello Zibaldone: «Questi sono simili fra loro, quelli che sono perfettamente colti, in virtù dell’incivilimento che tende per essenza ad uniformare». Il 21 di luglio del 1829, ormai definitivamente fuori da Recanati, scrive:

“Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi, così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare dell’amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o della storia, che nella vita reale giornaliera non si incontrano mai (e certo egli non si aspetta mai d’incontrarne nella sua). E si inganna. Non dico Piladi o Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara. Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l’uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di sì fatti (di tal fatta)”.

Nelle città, scrive Pierangeli, è impossibile avvertire l’eco delle divinità e quindi, fuor di metafora, della virtù e della fantasia poetica.

L’auto-esclusione o esclusione forzata dalla convivenza umana, resta topos vivissimo in immaginazioni ispirative anche molto differenti nel tratto dei Canti che dall’Inno ai Patriarchi arriva a quello che un “ignoto amante” indirizza alla Beltà, l’unica lirica scritta dopo il soggiorno romano, disastroso. Come il Prometeo delle Operette morali, il conte Giacomo deve constatare, anche nei difficili rapporti con l’altro sesso, che la virtù non esiste, o è vilipesa, nelle piccole e nelle grandi città.

Il topos del viaggio come scoperta dei mali del mondo che annullano la pretesa antropocentrica e di un mondo dominato dalla virtù, si ripete nella novella umoristica di Ippolito Nievo Il Barone di Nicastro, una sorta di corsa (compiuta con svariati mezzi di trasporto, dalla nave alla mongolfiera) attraverso l’intero globo terrestre dove lo spazio è solo nominato e pressoché non descritto e i luoghi stanno ad indicare idee, modelli sociali, politici, mentali, sui modelli umoristici e del Candide, e delle opere di Sterne.

Si tratta, spiega Pierangeli, della miglior prova del Nievo comico, volutamente disordinata, in cui la geografia scompaginata si presta a incontri esilaranti, senza perdere di vista il sottofondo etico contrassegnato da una leopardiana amarezza per i caratteri degenerati assunti dall’uomo, a cui reagisce l’ilarità della satira.

Come il Prometeo leopardiano, rischiando la vita, rimettendoci la salute, Nicastro non trova la virtù che cercava come letta nel frammento di Bruto, attardato dalle meschine dualità che formano i costumi e la mentalità del genere umano, da Oriente a Occidente.

Le umiliazione, le vessazioni corporali, le mille avventure, dai paesi «barbari» a quelli più avanzati lo convincono dell’inesistenza di una conciliazione allo strapotere del due, numero simbolo degli opposti lacerati e laceranti, specchio della drammatica coscienza della dualità: tra riscatto e perdizione, fascino della vita contadina e attrazione per la nuova cultura urbana, civiltà veneziana al tramonto e nuova civiltà dell’Italia Unita, rispetto della tradizione aristocratica e nuovi ideali democratici e risorgimentali», già intravisti nei romanzi precedenti agli itinerari del Barone per cui, alla fine del viaggio, la virtù non può accompagnarsi alla felicità.

In conclusione: se dovessimo definire gli autori esaminati qui nei due termini “ottimisti e pessimisti”, non avremmo scelta: la bilancia penderebbe dalla parte del pessimismo, ma un pessimismo vitale, attivo, come appunto richiede ogni opera d’arte.

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