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Gli uomini e le donne e cosa pensano al centro dell’8 marzo

Gli uomini e le donne e cosa pensano al centro dell’8 marzo
Marzo 08
08:57 2021

(Serena Grizi) L’aggressività tra persone nella scrittura quotidiana, la violenza verbale quale abitudine nei rapporti sociali, la tensione dialettica e l’ignoranza delle regole. Violenza ‘di genere’, degenere

Per celebrare degnamente la Giornata della donna occorrerebbe mettere al centro del dibattito, della scena, cosa pensano gli uomini della loro ‘convivente’ planetaria. E per farlo occorrerebbe leggere per un giorno, come in un grande coro a staffetta gli articoli dei quotidiani, le leggi dello stato e della pubblica amministrazione, i post sui social indirizzati a donne che fanno attività pubblica, le scritte sui muri e nei bagni dei locali pubblici, i fumetti, le mail tra colleghi di lavoro; la riscrittura dei discorsi ascoltati per la strada, le registrazioni delle discussioni familiari; le sentenze di separazione e affido dei figli in tribunale; i contratti di vendita e affitto e tutto quel che verrebbe ancora in mente in materia di scritto e che testimonia dei reali rapporti che intercorrono nella vita di tutti i giorni tra uomini e donne. Scritti estesi da mano maschile che parlano di donne, alle donne, di uomini che legiferano su materie di preponderante interesse femminile e la massa critica della scrittura prodotta anche solo in un mese non mentirebbe su questi reali rapporti. Non occorrerebbe mettere nessuno sul banco degli imputati, non preventivamente, ma andare a vedere quale sentimento muove la mano di un uomo quando scrive di una donna, ad una donna. Nonostante l’evidente disparità di numero che si registrerebbe fra leggi estese da uomini e leggi estese da donne, in Italia, per esempio, considerando ‘solo’ quelle dalla nascita della Repubblica ad oggi, attualmente si noterebbe una quasi parità fra donne e uomini che fanno giornalismo, letteratura, che scrivono sui social, che presenziano ai processi in tribunale in qualità di avvocato, magistrato o giudice e scrivono memoriali e sentenze. Se ne trarrebbe l’idea, probabilmente, che spesso non c’è rispetto tra le persone, prima che nei confronti delle donne. Poco tempo fa portai all’attenzione la storia di Emma (la trovate qui) che viene apostrofata dal suo direttore come ‘massaia’ nella sua accezione di ‘mente, rozza atta a sbrigare faccende di poco conto’; poi ci sono le cronache quotidiane riguardo le donne della politica delle quali prima o poi, irresistibilmente, si criticherà non tanto l’operato politico, la dialettica, il loro schierarsi di parte, peraltro compreso nella Costituzione, ma il colore del rossetto abituale, i cuscinetti di adipe, il vestiario, una loro possibile non aderenza al ruolo di ‘oneste’ mogli e madri. Riflettendoci sopra può capitare anche ad un uomo che ricopra cariche pubbliche o altri ruoli che prima o poi lo si giudichi in ordine alla prestanza fisica, al suo essere vecchio o giovane, un fallito, uno che ha realizzato molto, uno fortunato con le donne, uno irreparabilmente brutto o antipatico. Ma in ogni caso l’insulto o la calunnia dicono molto anche di chi li va pensando e scrivendo e così della povertà mentale e della deriva morale e intellettuale nella quale naviga la nostra bella società, morsa dall’invidia, erosa dal disinganno, logorata dalla competizione.  

Probabilmente, dopo attenta analisi, si concluderebbe che la tensione dialettica riguardante le diversità tra persone resterà insanabile com’è insanabile quella quota di aggressività fra umani che ogni giorno genera violenza, incontrovertibile questa, come l’intelligenza e la pazienza che ogni giorno mandano avanti il pianeta, ma si potrebbero cogliere aspetti utili su cui tutti, uomini e donne senza distinzione, potremmo riflettere. Sembra quasi inutile dirlo in tempi di ‘leoni da tastiera’, ma quando si incontra l’altro, anche attraverso un contratto o una sentenza, o un sms, occorre pensare che l’altro potremmo essere noi: non è solo e tanto un senso cristiano del guardare all’esistenza, anche se nella cattolica Italia la questione potrebbe essere di non secondaria importanza, ma un senso dell’etica generale, dello scrivere, del sentenziare, del rispondere. Se lo si fa in maniera offensiva, senza riflettere sul volto della persona a cui si va rispondendo, di cui si va parlando, sul suo ruolo, le sue aspettative, probabilmente lo si fa per attaccare volutamente, soprattutto quando si calca la mano su attributi fisici e falsità più che sui ruoli ricoperti. Questo potrebbe dare ‘il polso della situazione’: il solo leggere ad alta voce gli scambi per iscritto che regolano una parte dei rapporti sociali.

La violenza perpetrata sulle donne, fidanzate, mogli, madri (si dimentica che a volte i figli con problemi mentali decidono di uccidere la propria madre quale ‘ostacolo’ a una presunta normalità), non è che una declinazione della violenza che è stata chiamata ‘di genere’. Il genere prescelto, femminile, testimonia semplicemente del suo essere più debole: più povero economicamente, meno garantito nei diritti, legato alla difficoltà di lasciare una vita familiare fattasi invivibile se ci sono di mezzo bambini piccoli, educato nell’idea della inferiorità, della sfiducia in sé e in quello che potrebbe essere, da una società di uomini e donne che procede in maniera ignorante ed ignorata. Pochi giorni fa in un programma televisivo una comandante dell’Arma dei Carabinieri, incalzata dal giornalista su quali sono le effettive procedure seguite dal momento in cui una donna denuncia di essere in pericolo in seno alla propria famiglia, la stessa ha dovuto ammettere che non c’è alcun programma o protocollo immediato che la aiuti da subito a non rientrare mai più in famiglia a subire, nel migliore dei casi, un’aggressione in conseguenza alla denuncia o al solo sospetto che questa sia avvenuta. Una procedura che le consenta, seduta stante, spesso con dei figli, di prendere un’altra strada che non sia quella di casa. Passano giorni ed i giorni sono preziosi, spesso decidono del dramma: in pericolo è essa stessa e gli eventuali figli, in pericolo il possibile omicida che ignorato nella sua ignoranza e violenza finirà per essere, se non un suicida, vero o mancato, un altro ergastolano. Sono ignorati coloro che delinquono e coloro che subiscono la violenza perché non si crede fino in fondo che questo sia un problema ‘umano’, ma che sia in realtà un problema intrinseco alla famiglia la quale deve risolverlo così come l’ha creato: la famiglia che a questo punto è esclusa essa stessa dall’orizzonte ‘umano’ ritrovandosi in qualche altra categoria ‘innaturale’ del diritto o del dovere. Lo stesso problema, infatti, nella nostra società lo subisce la categoria debole dell’anziano: perché magari essere malmenato in una residenza di riposo non è un problema umano ma un problema della categoria ‘anziano non ricco e solo’, non possibile da sanare. Altra violenza la si perpetra sui padri costretti a dormire in auto da una male interpretata legge sulla proprietà familiare, assegni di mantenimento e affido dei minori, conseguenza, con tutta probabilità, degli abusi che per anni hanno subito le donne nei tribunali e che nel rivoltare la violenza di quelli crea altro disagio e sofferenza a genitori che spesso non lo meritano.  Probabilmente dietro il significato del costruire culture di pace e dialettiche d’incontro fra persone, oltre il sesso al quale appartengono, dovrebbe riflettersi tutto questo e molto altro ancora. Modificare il linguaggio quotidiano, le scritture abituali, tentare la comprensione dell’altro nel suo esistere tra difficoltà e paure, controllare l’istinto, bestiale, di insultarlo per chiudere facilmente ogni faccenda. E poter controllare, infine, l’istinto di eliminarlo quale ‘ostacolo’ a ciò che si era pensato di realizzare, e che non potrà essere così come si era pensato perché, appunto, la manifestazione di una volontà diversa dalla nostra deve considerarsi intangibile per quanto siano dolorose le conseguenze che il suo realizzarsi comporta.   

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