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Gli eredi di Giolitti e noi

Gli eredi di Giolitti e noi
Dicembre 04
07:36 2013

Milano, settembre 1920, una fabbrica occupataIn che modo si ‘misura’ la temperatura di un Paese?
Un modo potrebbe essere quello di farsi un giro sul sito dell’Istat. Istruttivo sì, ma quei numerini e quelle sottili linee rosse dicono poco, e quel poco diventa niente poiché lo conosciamo già: che ad esempio la massa di disoccupati, da noi, è al 12,5 per cento, mentre la povertà, tra ‘relativa’ e ‘assoluta’ è al 15,8. Che in soldoni (scusate l’inconscio calembour) significa sei milioni di senza lavoro e precari e nove milioni di poveri e impoveriti. Certo, queste cifre andrebbero opportunamente disaggregate, come dicono gli esperti, ma il risultato non varierebbe di molto.

L’Italia sta pagando il conto. Un conto salatissimo, sproporzionato, e che forse verrà saldato dai nostri figli o dai loro nipoti. Perché, se è vero che la crisi attuale è peggiore di quella del ’29, come dicono in tanti, la fine non sarà né rapida né indolore, visto che, correndo l’Anno VII° di questa avventura, nessun governo, in Europa, si adopera minimamente per pianificare una purchessia via d’uscita.
Letta, Saccomanni e Hollande, la Merkel e Draghi (e Monti) saprebbero pure dove intervenire e a chi e come far pagare il famoso conto, ma non lo possono o non lo vogliono fare perché dovrebbero infine constatare il fallimento di una Unione semplicemente finanziaria, sganciata dalla realtà e dai bisogni concreti delle persone, con una moneta senza Stato e non svalutabile e assurdi meccanismi di controllo del pil e di sforatura del debito, altrove inesistenti. Che stanno aprendo una enorme faglia sotto i piedi di questo gigante d’argilla. Era questa l’Europa che sarebbe piaciuta al vecchio liberale Einaudi o al democratico-cristiano Adenauer? Se fossero state queste le loro intenzioni, siamo certi, si sarebbero presto scontrate con dei contrappesi di non poco conto, e con un movimento civile, popolare, ancora forte, perché da poco uscito dalla devastante esperienza del fascismo. E così il lavoro sporco lo hanno portato a termine i loro discepoli grazie anche a insperati alleati come l’exploit delle nuove tecnologie e a provvidenziali e auspicati regressi della Storia. Perché lo smantellamento progressivo dello Stato sociale, del welfare, delle più comuni norme di dignità che regolano una nazione che si voglia dire civile parte da lontano. Dalla rivincita, voluta, cercata, una vendetta in piena regola, del capitale finanziario sul decennio rooseveltiano e keynesiano del ‘New Deal’, riuscendoci.
La finanziarizzazione esasperata che si regge sulla carta straccia degli hedge fund proviene da lì e dalle prime delocalizzazioni di industrie americane nel Sudest asiatico della fine degli anni Cinquanta, prosegue con le vittorie politiche ed elettorali di Margaret Thatcher e Ronald Reagan e arriva a maturazione con la ‘marcia dei 40.000’ impiegati e capetti a Torino nel 1980. Il resto, appunto il lavoro sporco, almeno in Italia lo compiono Craxi e Amato con l’abrogazione della scala mobile, Treu col ‘pacchetto’ del ’97 e l’inferno dei call-center, dei mini-job e i contratti spazzatura, le ‘lenzuolate’ di Bersani; ciliegina sulla torta, D’Alema nel ’99 che dichiara «È finita l’epoca del posto fisso, oggi l’occupazione si crea anche con i lavori a termine». Questo il quadro.
In terra rimangono i cocci, che la nostra classe dirigente si guarda bene dal raccattare. Eredi in linea diretta del trasformismo e del clientelismo giolittiano, esercitano l’arte della tattica, dell’attendismo inconcludente, con una costante riserva mentale: che le cose, prima o poi, si sgonfieranno da sole. Ma a differenza di Giolitti, che nei dizionari di Storia viene considerato uno ‘statista’, non foss’altro per la gestione gesuitica con la quale seppe svuotare di contenuti e di prospettive il ‘biennio rosso’, i nostri dirigenti possono essere considerati, se va bene, alla stregua di certi disonesti amministratori condominiali che fanno la cresta sulla pulizia delle scale. Il loro orizzonte non è quello di creare lavoro o di difendere quello che c’è (Enrico Letta era ministro dell’Industria quando la ‘Goodyear’ di Cisterna di Latina decise di chiudere, sempre nel ’99), non è quello di laicizzare una scuola pubblica preda di convulsioni meritocratiche e nevrotiche ‘verifiche’ targate Invalsi: il loro scopo, dichiarato, è quello di degradare ulteriormente la nostra società, la nostra convivenza. Stornando l’attenzione, sperando che i cittadini si allontanino dalla Politica nel più breve tempo possibile. La frase (sempre Letta) «Alle Europee non si voterà più destra e sinistra, si voterà per l’Europa o il populismo» è quanto di più ipocrita possa uscire di bocca, mentendo sapendo di mentire. Fingendo di non sapere che è su queste due categorie che il mondo si è diviso, e continuerà a dividersi. E la sortita di Napolitano davanti al Papa «In Italia abbiamo un clima politico avvelenato», capolavoro di impotenza e di reticenza, fa il paio con i pensierini di Renzi e la mistica delle Primarie, con la vuota grafomania di ‘Facebook’ e gli sms dei ragazzini dagli auricolari bianchi. È il dire e il non dire tipicamente italiano, è l’ammiccare furbesco, è il ‘Dica?’ inquisitorio dell’usciere. Lascia tutto in sospeso, una zona grigia dove tutto può accadere. Perché dopo Giolitti, esperto statista, venne il grigio (e il nero).

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