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Giustizia che trasforma

Marzo 22
08:26 2010

Tra gli appunti sparsi disordinatamente sulla scrivania ho ritrovato un mio vecchio articolo sulla Giustizia e sul Carcere, facce della stessa medaglia che dovrebbero trasformare al cambiamento di mentalità il colpevole e rendere migliore l’intera società. Le parole su questa pagina ingiallita dagli anni trascorsi, possono ancora essere utili per pensare a quanti vivono nella marginalità, emarginando gli altri, e così facendo si crea una vera “giustizia ingiusta”, che poggia le fondamenta su due basi: il mancato riconoscimento dei diritti altrui, e il fatto di confondere ottusamente l’omertà con la solidarietà. Due atteggiamenti di comodo, dettati da una necessità di sopravvivenza che però si maschera da “giustizia sociale”. Quando si sta ai margini, ogni situazione, ogni limite e distanza, sono usate per giustificare le proprie azioni, la colpa è sempre degli altri che non ascoltano, non aiutano, rimangono indifferenti, eppure anche se povertà e solitudini creano ingiustizie, non sono sufficienti ad assolvere alcuno dalle proprie responsabilità. Quale giustizia e quale pena possono arginare l’illegalità diffusa, la furbizia assunta a valore, la violenza cresciuta professionalmente ed economicamente, se il carcere continua a essere il luogo nel quale più di ogni altro si genera e si rigenera l’esclusione. Sebbene nel suo perimetro chiuso non ci siano eroi, ma unicamente uomini sconfitti, la pratica diventa metodo consolidato, si muore attaccati a una corda, si muore inascoltati da una giustizia che momentaneamente è nella posizione di non potere vedere le sue tante ingiustizie.
Forse bisogna di immaginare una giustizia diversa, finalmente condivisa, che non si risolva in una condanna e in una pena meramente da scontare, un debito da pagare senza alcuna consapevolezza di quanto sia difficile tentare una possibile riparazione, partecipando attivamente affinché il carcere recuperi davvero alla società: e ciò potrà avverarsi quando esso stesso sarà recuperato dal consorzio civile. Per un detenuto, per un operatore, per una società che è comunque e sempre coinvolta nella sua opera di risanamento, dovrebbe significare che il tempo non sia un tragitto che scivola addosso, con poca importanza e nessuna dignità.
C’è necessità di partecipare a una buona Giustizia, a un carcere davvero utile, che non renda oltremodo inumana la disumanità. Su questi pilastri della convivenza civile non è sufficiente dire la propria usando toni aspri, dialettiche violente, forse occorrerà partecipare con la forza delle idee, con atteggiamenti che non banalizzano un problema che sta minando la percezione di equità e compassione. La Giustizia è dimensione che ha bisogno di buona volontà per migliorare le cose e le persone, anche dentro una cella, ma per non concorrere a una civiltà che muore, non dobbiamo accontentarci di avere dei numeri, degli oggetti ingombranti, ma uomini da aiutare per diventare a propria volta perni su cui fare girare tanti altri in difficoltà.
Parlare di ciò è anche un po’ il pane del perdono, quel segno tangibile di una riconciliazione, un senso ritrovato nell’onore riconquistato, un pane e una dignità meritati sul campo, sul terreno fertile di una giustizia e di una pena a misura di uomo.

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