Giornata della memoria con i Diari di Pieve S. Stefano ma ‘i testimoni’ diminuiscono
L’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, sempre più importante poiché conserva e conserverà le memorie di italiani che ricostruiscono un mosaico davvero minuzioso della vita nel nostro Paese, ricorda così l’Olocausto, domandandosi anche cosà sarà di questa memoria. Il Museo ‘interattivo, parlante’ è un piccolo gioiello da non perdere. L’Archivio una voce da sostenere.
«Stiamo morendo tutti, noi testimoni, ormai siamo rimasti pochissimi e quando saremo morti tutti il mare dell’indifferenza e della dimenticanza si chiuderà sopra di noi. Vogliamo iniziare così questa nostra lettera che oggi, Giorno della Memoria, indirizziamo a voi; vogliamo esordire con queste parole di Liliana Segre per chiedervi, per chiederci, se c’è qualcosa che possiamo fare, noi e voi tutti insieme, per evitare che quella memoria vada perduta per sempre una volta che anche l’ultimo di questi testimoni se ne sarà andato. È una domanda che ci facciamo ogni giorno qui a Pieve; e ogni giorno cerchiamo di rispondere a questa domanda sottraendo la strada all’oblio, lottando contro il sopravanzare del tempo, che non può e non deve in alcun modo corrispondere al sopravanzare del buio. Perché sappiamo, lo vediamo ogni giorno in Archivio e nelle stanze del Piccolo museo del diario, che è raccontando e tramandando questa memoria comune alle nuove generazioni che possiamo fare in modo che quel mare non si richiuda mai sopra di noi. Oggi, in una giornata così importante e simbolica, vogliamo condividere voi con una delle nostre 8.500 testimonianze che ci riporta, letteralmente, nel campo di Auschwitz. Quelle che seguono sono le parole di Renzo Pellegrini, che nel 1991 torna in visita in quel luogo mostruoso che riaprirà la ferita del ricordo del suo internamento; una testimonianza asciutta, quasi “sterilizzata” come quel luogo rivisto dopo tanti anni e ormai di fatto irriconoscibile e altro; vogliamo dedicare queste sue parole agli ultimi testimoni, perché la fiamma della memoria possa continuare a passare di mano in mano senza sosta, per rimanere sempre accesa tenendo lontano il buio, la notte, l’oblio: «Ancor prima di varcare il cancello con la scritta Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi, ho avvertito la nefandezza del posto come stemperata, quasi dissolta. Un lungo edificio, una Kawiarnia, è il segnale che l’immenso bubbone di un tempo è stato sterilizzato, circoscritto. Si possono acquistare kawa, ciastka, kanapki, woda mineralna, caffè, paste, tartine, acqua minerale, ed anche gotowe danie, pasti caldi, specjalnosc zakladu, specialità del posto e prodotti dell’artigianato, poczstowka i poczstownj, cartoline e francobolli, e un opuscolo in varie lingue dalla copertina nera. Auschwitz è diventato un itinerario turistico. Da un autobus ho visto discendere dei soldati sovietici, la divisa marrone, il cappello a visiera largo come un’aureola. Compunti, inquadrati, non al passo. Li ho sentiti bisbigliare come i fedeli nelle chiese mentre varcavano l’ingresso del campo e sono entrato al fianco di due leggermente staccati dal plotone. Giovanissimi! Non conosceranno nulla del vero Auschwitz. Visiteranno la Pferdestallbaraken e i blocchi dove vidi pigiarsi 1000-1200 prigionieri sovietici dei centomila e più che qui furono chiusi; ne sopravvissero 92. Lo sguardo e la mente sul gruppo dei visitatori russi incamminato sul viale di mezzo fra caseggiati in muratura, puliti, ordinati, una scala breve per raggiungere l’ingresso, contraddistinti dalle lettere dell’alfabeto sulla porta, mi hanno impedito di vedere subito, sulla parete della prima costruzione a destra, la gigantografia di un’orchestra, i componenti con la casacca a strisce. È il complesso musicale che con tragica festosità salutò il nostro ingresso al campo. D’istinto mi sono domandato quali furono le note che ci accolsero. Rosamunda? Non lo so. Dello sterminato Interessengebiet di allora, mi ha procurato sgomento il frammento sterilizzato, asettico di oggi, inverosimilmente estraneo ai suoni e ai luoghi della mia memoria. Quando giungemmo al campo di Auschwitz le camere a gas e i forni crematori erano solo un sospetto da respingere come una fandonia. Invece era ad Auschwitz – lo apprendemmo in seguito – che funzionavano il bagno con le docce per la morte di massa col Cyclon B e il blocco coi forni per la cremazione dei cadaveri. Le voci spesso erano frutto d’una realtà che l’istintiva volontà di sopravvivenza respingeva con la forza della disperazione.» Dagli scritti autobiografici di Renzo Pellegrini, conservati nell’Archivio dei diari di Pieve S. Stefano. – immagine web |
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