Giornalisti e ‘Branded Content’
29 Marzo 2021 di Pier Luca Santoro dal sito in media stat virus
È notizia di questi giorni che sono state approvate dal plenum del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa le prime linee guida “sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi”. Linee guida attraverso le quali si autodisciplinano e invitano ad un “Uso sobrio e frequentazione prudente dei social. Opportunità ma con grandi rischi”. Tema sul quale è disponibile un’analisi interessante al riguardo.
Per quanto riguarda i giornalisti ogni tanto la questione torna alla ribalta, in occasione di “incidenti” generati dall’uso disinvolto dei social da parte di alcuni, per poi finire nuovamente nel dimenticatoio. Se ne era parlato l’ultima volta in occasione delle linee guida introdotte da nuovo direttore generale della BBC.
La social media policy interna NON è un optional. Ma strumento imprescindibile della tutela della reputazione e del valore dei [news]brand. Non abbiamo dubbi. Il “caso” di Jacopo Iacoboni (conosciuto anche come caso Beatrice di Maio n.d.r.) è uno dei tanti, ma probabilmente anche il più lampante.
Tema relativamente al quale l’Ordine dei Giornalisti non ci risulta abbia mai proferito verbo, colpevolmente, anche se ne avevamo parlato, con Mario Tedeschini Lalli e Bruno Mastroianni ad una tavola rotonda organizzata da Stampa Romana, sindacato dei giornalisti del Lazio, nell’estate del 2019.
Sempre in tema di deontologia, i giornali camuffano sempre più i messaggi pubblicitari a pagamento, violando il codice etico dell’Ordine dei Giornalisti, che in questo caso invece è chiaro al riguardo, e tradendo la fiducia del loro pubblico, che infatti si fida sempre meno di loro.
Ora la questione si pone anche per quanto riguarda i giornalisti. Nei fondamenti deontologici del giornalista c’è scritto a chiare lettere che «il giornalista applica i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network». Inoltre viene specificato che «il giornalista non presta il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie. Sono consentite, a titolo gratuito e previa comunicazione scritta all’Ordine di appartenenza, analoghe prestazioni per iniziative pubblicitarie volte a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici, sindacali».
Ad esempio, Carmelo Abbate, caposervizio della sezione attualità di “Panorama” e opinionista per le reti Mediaset oltreché ospite fisso di Quarto Grado, ha una presenza social importante con 198mila follower su Instagram, addirittura più di 377mila su Facebook, 92mila su TikTok e “solamente” 23mila su Twitter.
Ebbene il giornalista in questione ha una collaborazione attiva con Wolford, azienda di e-commerce di abbigliamento, e ne diffonde con regolarità i contenuti sulle diverse piattaforme sulle quali è presente in maniera massiccia, come abbiamo visto, assumendo di fatto il ruolo di “influencer”.
Su Instagram addirittura il link all’azienda in questione è nella sua bio, come specifica nei post sponsorizzati dall’impresa. Su Facebook non è così, ma i post sponsorizzati pare riscuotano ampio successo tanto che, stando alla nostra analisi, effettuata con CrowdTangle, l’ultimo post promozionale è uno dei primi tre contenuti di branded content su Facebook, in italiano, nell’ultima settimana.
Se su Facebook e Instagram, almeno, è scritto chiaramente che si tratta di contenuti brandizzati, così non è su Twitter dove compaiono esattamente gli stessi contenuti, mentre su YouTube compare l’hashtag #adv. E oltre al caso riportato non è difficile immaginare quanto possa essere diffusa più in generale tra gli iscritti all’OdG tale pratica.
Questo avviene in chiaro contrasto, e dunque in aperta violazione del codice deontologico dell’Ordine dei Giornalisti, che come nel caso della social media policy, e su molte altre questioni, tace al riguardo, confermando, se necessario, la propria inconsistenza e sostanziale inutilità.
Come riporta “Charlie”, la newsletter settimanale del Post sul mondo dei giornali, il New York Times, che questa settimana ha comunicato ai suoi giornalisti che d’ora in poi ogni progetto o collaborazione esterni andranno prima concordati col giornale. «La commissione valuterà soprattutto i progetti esterni che possono potenzialmente essere in concorrenza con il nostro giornalismo e il nostro business, o che possano essere in conflitto o distrarre dal lavoro al New York Times, che implichino una retribuzione o che possano essere svolti diversamente in accordo alle Norme Etiche del Giornalismo. [Esempi possono essere] proposte di libri, impegni televisivi e cinematografici, consulenze, produzioni, sfruttamento di diritti […] La commissione valuterà anche progetti audio, newsletter a pagamento o gratuite».
Questo anche se negli Stati Uniti non vi è un ordine che rilascia tessere professionali e per avere una definizione legale di giornalista bisogna quindi rifarsi alle leggi adottate singolarmente dai vari Stati, così come avviene in molti altri Paesi europei. A ulteriore conferma dell’insostenibile leggerezza del nostrano Odg, per dirla in maniera romanzata, che del resto propone contenuti brandizzati a sua volta.
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