GENTI D’ITALIA – La taranta a Villa Abbamer
Venerdì prossimo alle ore 18 inizierà
GENTI D’ITALIA
di Claudio Barbati e Rosalinda Gaudiano
Tre proiezioni in omaggio Gianfranco Mingozzi e del suo tenace interesse per l’etnologia, una passione che lo portò – tra i Sessanta e i Settanta del Novecento – a realizzare documentari di eccezionale interesse, che fanno omai parte della storia di tale disciplina oltre che della storia del documentario cinematografico in Italia.
La taranta (1961) è in assoluto il primo documento filmato sul tarantismo, male secolare delle terre arse di Puglia, che si diceva provocato dal morso di uno scorpione. Realizzato con la consulenza di Ernesto De Martino e con un testo straordinario del Nobel Salvatore Quasimodo, il documentario vinse il Festival dei Popoli nel ’62 e trionfò dopo di allora a numerosi festival in giro per il mondo.
Con il cuore fermo, Sicilia (1965), su testo di Leonardo Sciascia, è una calda e implacabile ricognizione sui mali della Sicilia: da quelli antichi, la miseria e la soggezione, fino ai moderni, come la mafia con la sua continua e inaudita violenza. Il documentario ottenne il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, premi ai festival di Mannheim, Londra, San Francisco e ai Nastri d’Argento.
Sulla terra del rimorso (1982) chiude, oltre vent’anni dopo, l’esperienza etnologica vissuta in Puglia da Mingozzi. Il male antico langue, ma le sue ragioni nascoste ancora bruciano sotto la cenere. La modernità incombe, ma i mezzi per affrontarla non sono certo alla portata di umili e diseredati. In questo congedo da una tematica giovanile, il regista dà prova della sua conquistata maturità.
La Taranta (Italia/1961, 20’)
regia di Gianfranco Mingozzi
«La danza eseguita durante la cura è la tarantella, cioé la danza della piccola taranta. Il tarantato, colui che è stato morso, diventa danzando il ragno che lo ha morso, e al tempo stesso lo calpesta e lo schiaccia col piede che danza: questa valenza d’identificazione combattente costituisce il carattere fondamentale del tarantismo come cura. Chi danza si fa ragno: lo imita, striscia al suolo o cammina carponi, s’arrampica, fila la tela, salta ma al tempo stesso è impegnato agonisticamente contro il ragno che lo possiede…» (Ernesto De Martino)
Piccolo gioiello documentaristico di etnologia, incentrato su reali casi di tarantate nella Puglia degli anni Sessanta, riprese dall’audace telecamera di Mingozzi, coadiuvato dagli scritti e dalle idee dell’antropologo Ernesto de Martino, dalle folgoranti musiche di Luigi Stifani e dalle ipnotizzanti parole di Salvatore Quasimodo.
Il “rituale di liberazione” della taranta, pregno di musica/danza e furore religioso, permette di dare un’immagine al “male”, consentendo di ricostruire, attraverso una comunicazione che si avvale del linguaggio simbolico, la storia personale della posseduta. Il rituale della taranta permette di superare gli intimi conflitti della vittima e di riconciliarla con le sue esperienze dolorose, fino a restituire un senso ad una situazione altrimenti patita come caotica e destrutturante. Si tratta quindi dell’efficacia simbolica teorizzata da Claude Lévi-Strauss nel 1949 sulla rivista “Revue de l’Histoire des Religions”, quella potentissima tecnica che attraverso l’uso da parte del terapeuta di peculiari modalità comunicative permette al soggetto di attingere a ciò che è contenuto nel suo emisfero destro cerebrale. L’emisfero destro cerebrale è la sede elettiva del sogno, dei processi visivi, della percezione dello spazio, della comprensione delle metafore e dei simboli, dei flash d’ispirazione e degli stati alternativi di coscienza; ma i suoi contenuti sono inconsci e non verbalizzabili. L’efficacia simbolica permette al soggetto di sanare i propri conflitti, dare un senso ad una situazione che precedentemente sfuggiva al controllo, innescando così un processo di reazioni psicofisiologiche (attraverso la mobilitazione di stati emozionali) responsabili dell’autoguarigione e del recupero di un equilibrio migliore. Quello dell’efficacia simbolica è probabilmente lo stesso campo terapeutico da cui attingono ai giorni nostri gli sciamani, i guaritori, i maghi, i pranoterapeuti etc. Anche nelle pratiche mediche tradizionali, d’altronde, molte cerimonie e persino molte sostanze utilizzate non hanno proprietà curative in senso stretto, ma possono produrre effetti di guarigione proprio per la loro elevata valenza simbolica in grado di suggestionare il cervello del paziente.
Al giorno d’oggi il tarantismo è ormai un lontano ricordo, i centri di igiene mentale straboccano di pazienti, i conflitti vengono sopiti dagli psicofarmaci e dallo shopping compulsivo…ma l’attuale incapacità delle persone di poter attuare un trascendimento simbolico dei loro traumi sembra rendere l’aria irrespirabile e il disagio strisciante sta costantemente attanagliando strati più ampi della popolazione…imperativo diviene stimolare l’immaginazione e la sensibilità estetica, due qualità che con la loro apertura e l’intrinseco carattere di indeterminatezza potrebbero probabilmente restituirci l’efficacia simbolica dell’arte e la sua valenza terapeutica.
Gianfranco Mingozzi (Molinella (Bo), 5 aprile 1932 – Roma, 7 ottobre 2009) è stato sceneggiatore e regista. Dopo essersi diplomato al Centro sperimentale di cinematografia e avere lavorato come aiuto regista di Federico Fellini per La dolce vita (1960), si distingue come documentarista di valore (tra i tanti: Gli uomini e i tori, 1959, Festa a Pamplona, 1959, Le italiane e l’amore, 1961 – episodio La vedova bianca– Via dei Piopponi, 1962, Le finestre, 1962, Notte su una minoranza, 1964).
Nel corso della sua lunga carriera, ha diretto anche alcuni film di finzione. Tra i più celebri: Sequestro di persona (1968) e Flavia, la monaca musulmana (1974).
Il suo ultimo lavoro, il documentario celebrativo sul film di Fellini Noi che abbiamo fatto la dolce vita (2009), scritto da Tullio Kezich, è stato presentato al 62. Festival internazionale del film di Locarno lo scorso mese di agosto.
VILLA ABBAMER
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