Fuocoammare: una educazione e ‘l’emergenza stabile’
Fuocoammare era il momento massimo di pericolo durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i pescatori non potevano uscire perché il mare pareva incendiato dai fuochi delle battaglie…Fuocoammare è anche una canzone che suonano i lampedusani dal testo tramandato solo a voce e cattura l’orecchio appena sentita. L’orecchio. Invece l’occhio, scusate il gioco, nel film di Gianfranco Rosi lo cattura l’occhio ‘pigro’ di Samuele, bambino che s’avvicina all’adolescenza e ha energia da vendere: confeziona fionde con i legni da lui stesso cercati, le rifinisce, le spiega all’amico che può riuscire, dice lui, «solo se c’ha la passione» in un siciliano che somiglia a quello che abbiamo imparato grazie ad Andrea Camilleri e che i ‘maligni’ hanno detto essere una lingua desueta anche per i siciliani. Samuele abbatte anche fantocci vegetali, guerreggia con mitra inventati, cerca gli uccellini all’imbrunire o di prima mattina, perché pare voglia cacciarli con la fionda. Si preoccupa della propria vista e poi anche del suo mal di mare per il quale gli viene consigliato di ‘allenarsi’ a dondolare sul pontile accanto alle onde, quando il mare è mosso. Assieme alla sua piccola famiglia risucchia gustosi spaghetti conditi con calamari appena pescati e pomodoro fresco. S’ingegna, tenta di scaricare le sue tensioni: ha poco a propria disposizione (ma sa di avere poco?) e sopporta i lunghissimi silenzi di qualche amico e compaesano, davvero troppo lunghi per chiunque, i silenzi dell’isola, quella più vicina all’Africa che alla Sicilia. Quella che da più di vent’anni tampona l’emergenza immigrati. Immigrati che arrivano a ondate, per i quali l’italiano peninsulare medio pensa che ormai esista un sistema riccamente rodato d’accoglienza. Quelli che, invece, vengono visitati da un solo dottore con qualche sporadico aiuto; accolti da pochi poliziotti, volontari, sostenuti dalla popolazione col cuore o con l’azione. Immigrati cercati prima che arrivino a riva, come aghi in un pagliaio da un apparato radio che scandaglia ogni minimo fremito che non sia riconducibile al vasto mare. Il regista non abbraccia, come già nel bellissimo Sacro G.R.A., il genere a tema, l’inchiesta, il racconto con incipit, svolgimento e finale. Gli piace andare in giro, dove può, come può. Pare che a Lampedusa ci sia stato un anno è avrà avuto modo di capire a chi della vita dei lampedusani e dei migranti, vite parallele più di qualche volta, gliene importa davvero senza infingimenti. ‘Chi fa che cosa’, con pochi mezzi, nelle giornate lunghe che non sono invernali ma nemmeno estive, quando non c’è il turismo, così da sfuggire la cartolina ma anche l’orrore fine a se stesso. I migranti ci sono e cantano la loro storia per passare il tempo: ricordano la fuga, nei bellissimi cori tutti denti bianchi e pelli lucide, l’arrivo in Libia dove sono accolti male, picchiati e seviziati e poi respinti nel modo peggiore. Ricordano le guerre da cui sono scappati e cantano una qualche speranza che non sanno nemmeno loro, al momento, da che parte sta perché l’isola è sì piatta ma al largo si scorge solo mare e niente altro (pure i lampedusani hanno la libertà di andare da nessuna parte…). Lampedusa vive un tempo più lento di quello continentale: qui acquista valore la cucina con le sue specialità casalinghe, rifare un letto a mestiere, baciare i propri santi, andare per ricci vestiti con la muta già da casa, gettandosi in acqua col mare che c’è….La vita è rischiosa per i migranti e per alcuni lampedusani più poveri (non è forse per caso che appaiono molti anziani e piccoli mestieri con l’ago e il filo che per farli occorre tempo, pazienza o anche solo l’immaginazione per vedere ‘il domani’), «ma la vita senza rischio cos’è?!» canta un migrante. Certo che poi arrivano anche scene di disperazione, e di morte, incastonate in quell’incantesimo di tempo lento che non accelera nemmeno con il peggiorare del rollio delle onde…Samuele e l’amico Mattias crescono, gli anziani invecchiano, le giornate si ripetono, anche quelle ‘dell’emergenza ormai stabile’ di Lampedusa. Il dottor Bartolo, altro protagonista del film, si potrebbe dire, assieme a Samuele, dopo una vita dedicata ad accogliere migranti e a soffrire con loro, si porta in giro per le trasmissioni televisive e nelle foto il suo Orso d’oro vinto al 66esimo Festival internazionale del Cinema di Berlino. E non lo molla l’orso, tenendolo stretto fra le mani, nemmeno al regista, continuando quasi a non crederci. In una scena del film lui e Samuele parlano di un doloretto al cuore, ma sembrano parlare di quel doloretto che ci rende vivi e che pure vorremmo estinguere qualche volta se non fosse che è la vita e, dolore o no, bisogna viverla. Bartolo con la sua già un po’ vissuta, se ne va per qualche tempo in giro per l’Europa a prendere applausi con Rosi; Samuele pare restare a dialogare con un uccellino, inermi tutti e due, mentre si fanno compagnia all’arrivo del giorno, la fionda per cacciare dimenticata da qualche parte…un finale difficile da dire senza vederlo. (Serena Grizi)
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