Fiuggi Family Festival: i film in concorso
Ampia la selezione di film (11) portati in concorso, da quelli destinati ad ampia diffusione a quelli di più difficile circolazione nei circuiti cinematografici. Vincitore il documentario Mentre perdoniamo (As we forgive) di una giovane regista, Laura Waters Hinson, realizzato con grande coraggio, affrontando il viaggio in Ruanda con l’aiuto economico di familiari e amici. Il tema difficile del perdono, rivisitato con sguardo asciutto e obiettivo come necessità etica di ben-essere interiore prima che comandamento confessionale, si attualizza nella realtà estrema del genocidio del Ruanda, dove alla conquista dell’indipendenza nel 1959 è seguita in un crescendo l’intolleranza dei gruppi hutu contro tutsi e hutu moderati, fino alla carneficina consumata di casa in casa, di villaggio in villaggio. Rei riconosciuti: 120000, una massa enorme di colpevoli da giudicare, di fronte alla quale il presidente Kagame ha scelto la strada di rilasciarne circa 50000; terrorizzati tutti di lasciare il carcere perché avrebbero dovuto tornare alle loro case, trovarsi faccia a faccia con i superstiti e i familiari delle vittime. L’istituzione di tribunali di villaggio la strada scelta per far fronte a questa emergenza, l’azione di riconciliazione affidata di fatto ad organismi internazionali e Chiese. Una carrellata tra volti e sguardi, la paura delle vittime, la paura dei persecutori, a cui si oppone l’invito di Tolstoj: “Amiamoci l’un l’altro. Solo così vivremo in pace”. Il tema della famiglia è declinato qui dunque nella sua massima accezione, come famiglia umana, i crimini contro la quale sono “crimini contro Dio, che ha creato le persone” uccise, come esprime con commovente semplicità una superstite. Per il resto, è riconoscibile in molti dei film in concorso la sottile linea-guida intorno a cui hanno ruotato spettacoli e temi del festival, quella di una paternità spesso sofferta e problematica, ma accolta sempre come crescita emozionale ed etica. Cosi in Genova (il film di Winterbottom che vede protagonista simbolica di rinnovamento la città e le sue atmosfere) un padre viene chiamato dal destino, dopo la morte della moglie, ad una imprevista assunzione di responsabilità nei confronti delle due figlie, che reagiscono in modo diverso al lutto. Il trasferimento a Genova, il non facile adattamento, l’incontro-scontro tra mentalità e generazioni, la necessità di coniugare dolcezza e fermezza verso le figlie senza rinunciare ad una dimensione individuale, mettono a dura prova il protagonista e costituiscono il nocciolo di un film giocato sulla maestria tecnica ed un ritmo sostenutissimo, verso un finale forse narrativamente irrisolto ma aperto alla speranza. Ingrediente essenziale, accanto alle tematiche familiari, nel contingente di film ‘mitteleuropei’ presentati, è il forte sentimento della natura e del territorio. Che si fa riconoscimento di identità storico-culturale in Snijeg (Snow) di Aida Begic, Gran Premio della Settimana della Critica al Festival di Cannes 2008, dove le tematiche familiari si allargano nella rappresentazione di un villaggio-famiglia in Bosnia all’indomani della guerra, diventando coralità (quasi una Terra trema dell’Est, dopo il ciclone della guerra e della pulizia etnica) vincolo saldo pur nell’intrecciarsi delle storie diverse e diverse speranze di quattro generazioni di donne private dei loro uomini, provate dal duro lavoro quotidiano e dalla miseria. Le ragioni del cuore della musulmana Alma, determinata a realizzare il sogno del marito morto di portare il piccolo villaggio a nutrire un giorno tutta la Bosnia con la sua industria conserviera, si scontrano inizialmente con la diffidenza della suocera e la voglia delle più giovani di evadere da un destino di miseria e fame. Ma quando il sogno di riscatto di queste ultime sembra concretizzarsi, attraverso l’offerta di acquisto del villaggio da parte del serbo Miro per conto di una società straniera, emerge la tragica verità delle responsabilità di costui nella morte degli uomini e la minaccia della disgregazione della comunità viene scongiurata in una ritrovata solidarietà. Una natura-fondale e stereotipo (dal topos della selva/smarrimento al lupo/minaccia) ammicca invece nel ceco Kdopak by se vlka bal (Chi ha paura del lupo) di Maria Prochàzkovà. Lupo che però non è qui realtà esterna quanto piuttosto turbamento interiore, oggettivazione del senso di colpa della piccola Terezka, bambina rifiutata, esplicitamente dal padre naturale, ma inconsciamente anche dalla madre (che per lei ha rinunciato ad una brillante carriera di cantante lirica), contro cui si appuntano dispetti e sospetti della piccola, che giunge a crederla una aliena. La stabilità offertale dall’amore profondo dell’uomo che ha sposato sua madre e lei ha ritenuto fino a quel momento suo padre introduce il motivo della paternità come scelta, anche prescindendo dalle relazioni biologiche, e della sofferenza dei bambini in presenza di scontri e conflitti familiari. Ancora la natura, nella dicotomia topica campagna/città, nel lituano Mazie lauptaji (Little Robbers), dove una fattoria (simbolo del rifugio offerto da una realtà familiare coesa) accoglie e protegge dalle persecuzioni di crudeli affaristi la famigliola dei piccoli Robis e Louisa, rapinatori per necessità, per riscattare la casa portata via ai genitori dalla banca in conseguenza di un mutuo non assolto. Semplice e gioioso nel fuoco di fila delle trovate comiche, che vedono vincente la semplicità dei bambini contro il mondo spietato dei paperoni della finanza e gli sciocchi uomini della sicurezza. Ancora una fattoria e una nonna, meta finale delle peripezie di un bambino (alla ricerca di uova di rana per il fratellino operato di tonsille), nell’olandese Frogs and toads di Simone van Dusseldorp, che, sullo sfondo di una natura disciplinata, generosa e ben curata, restituisce con fantasia e solarità l’immagine di un mondo guardato dalla prospettiva sorridente dei bambini amati. Ben diversa (intricata e selvaggia, ma pur sempre rifugio) la natura in Versailles di Pierre Schoeller, con uno straordinario Guillaume Depardieu, che con gesti e silenzi dà vita e credibilità al personaggio di Damien, barbone deluso dalla società, ai margini della quale vive isolato, nel bosco di Versailles. Finché non arriverà Nina, anche lei rifiutata ed insofferente al mondo ‘civile’ ed alle sue regole, con il suo ‘fardello’ di fallimento ma anche di amore, il figlio Enzo, che lascerà a Damien, intuendone le qualità d’animo, nel tentativo di ricostruirsi una vita. È così, per amore del bambino, che Damien accetterà di piegarsi alla necessità del lavoro e ai formalismi della vita sociale, per poi riprendere la sua strada di randagio, una volta assolto il compito morale che il destino gli ha demandato verso il piccolo Enzo, che ritroverà poi la madre. Diverso l’approccio a tematiche ‘familiari’ nel gruppo di film in lingua spagnola, dove l’attenzione si concentra maggiormente sul disegno dei personaggi, in prospettive meno originali e potremmo dire più ‘globalizzate’. In Carlitos, di Jesus del Cerro, vera protagonista è la voglia di riuscire nel calcio, attorno a cui ruotano i sogni e le vicende di Carlitos, orfano discolo e dannazione del perfido direttore dell’orfanotrofio, Don Hipolito, contro cui si coalizzeranno tutti gli amici del piccolo, che alla fine non solo riuscirà a centrare il suo obiettivo, ma troverà una vera famiglia. L’amore coniugale costruisce invece il leit-motiv, a volte melenso, di El estudiante di Roberto Girault, dove il settantenne Eduardo, deciso, nonostante l’età, a realizzare il sogno di una vita, si iscrive all’università, scontrandosi con le problematiche di una realtà giovanile, in cui riesce però ad inserirsi sulla scorta della saggezza e degli insegnamenti di un classico della cultura spagnola, il Don Quijote. Mentre in Angeles di Eduard Bosch è l’amore di un padre, anche dopo la morte, a proteggere la figlia, che scopre essere priva per un ‘disguido burocratico’ dell’ angelo custode. Veloce e frizzante il film tratta con levità e sensibilità i grandi temi della vita: l’amore coniugale e parentale, la sorpresa di fronte alla morte, la fatica nell’ accettare l’ineluttabilità di un disegno superiore, spesso incomprensibile. Tutto nella immanenza di una fede quotidiana e ‘domestica’, per la quale al povero Carlo, ignaro di essere in cielo e preoccupato di cosa direbbe il capo se, chiamandolo, non lo trovasse in Cina, capita di sentirsi rispondere “Il Capo ti ha già chiamato”. Curioso che in questa galleria non si incontrino titoli italiani. Forse, da noi, almeno a cinema, la famiglia non ‘vende’.
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