Finanza come invenzione
In scena al Teatro Valle nel mese di febbraio, nell’allestimento del Piccolo Teatro di Milano (che quest’anno festeggia i 60 anni della sua fondazione, in coincidenza con i 10 anni dalla morte di Strehler, e i 10 anni di rinnovata vitalità attraverso le regie di Luca Ronconi), gli strani “affari del barone Laborde”, in Inventato di sana pianta, commedia (termine che preferiamo a quello di ‘vaudeville’, tradizionalmente associato alla comicità petillante di un Feydeau o di un Labiche) del tedesco Hermann Broch. Autore di altri due testi teatrali, Broch scrive negli anni ’30, e trasferisce sulla scena le contraddizioni di quell’età (nonché la sua propria condizione esistenziale di industriale fallito), non solo nel clima ‘crepuscolare’, nella percezione del tramonto dei valori di stati liberali agonizzanti, affacciati sull’abisso delle dittature, ma anche nella bruciante memoria della crisi del ’29. In scena, dunque. non più una borghesia opulenta, a ostentare le certezze economiche e le vocazioni imperialistiche di un capitalismo trionfante. Piuttosto, una cerebrale, lenta, intellettualistica circumnavigazione dell’universo finanza nella previsione del naufragio. Tutto iconicamente alluso nelle geometrie di una scenografia ‘razionalistica’, lineare e simmetrica nel disporre la vicenda, come la dimensione esistenziale privata e sociale dei personaggi, su due piani sovrapposti: sopra/sotto=giorno/notte=mascheramento/svelamento. Sopra, le camere da letto e il gioco degli equivoci, l’intreccio delle miserie private, tra cui piroetta disinvolto il barone Laborde. Sotto, gli spazi comuni, bar, hall, ristorante, le ‘quinte’di una società manierata e attenta ai ruoli. Tutto all’interno di un grande albergo, contenitore e metafora sociale. Qui infatti si dipanano le trame dell’astuto truffatore, sedicente barone Laborde, alle cui altalenanti fortune volteggia agganciata l’avventuriera Anastasia. Simmetrici a questi, la vittima designata (ma ben presto complice ed emulo), il Presidente, (ex-)solido banchiere, ora sull’orlo della rovina, e la di lui figlia Agnes. Gli equilibrismi dialettici e finanziari (peraltro asburgicamente lenti) del barone Laborde sullo sfondo della Vienna degli anni ’30 non riescono tuttavia a rendere più coinvolgente un testo che sembra risolvere la sua vis teatrale nel prologo: la scena cioè in cui contemporaneamente si esplicano i tentativi di suicidio dei principali personaggi, con evidente ammiccare alla realtà della crisi del ’29. Dopo il prologo, “i tre atti successivi sono la storia di un gruppo di sopravvissuti”, come precisa lo stesso Ronconi in un incontro di anteprima con l’economista Giorgio Ruffolo e il critico teatrale Gianfranco Capitta, intitolato, con neppure troppo velata allusione all’oggi, I furbetti e le sofisticate Ovvero Quando la finanza si specchia nel teatro. Qui Ronconi, che del saggio di Ruffolo Lo specchio del diavolo ha realizzato la trasposizione scenica, ha chiarito le ragioni del repechage del testo di Broch nell’interesse suscitato dal tema della finanza. Tema peraltro presente già in molti testi dell’’800, dove si esprimeva però nei modi del teatro canonico, mentre qui “è il tema a parlare” e “la finanza è un sogno ‘inventato di sana pianta’ in cui il truffatore risulta simpatico e vincente… la moralità noiosa e perdente”. Perché se è vero che “l’economia ha le sue regole” queste “nel ‘900 sono state scardinate e il rischio è che lo scardinamento diventi regola”.
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