Fare teatro in carcere: cosa significa?
Ricordandomi di avere fatto parte di un gruppo teatrale carcerario, mi viene da dire che a volte il teatro entra in carcere esclusivamente per intrattenere e divertire, infatti molti spettacoli hanno avuto come unico obiettivo il gioco, l’animazione, senza che fosse richiesta alcuna professionalità, o vi fosse interesse ad ottenerla. Il carcere può essere visto come un laboratorio in cui gli attori, in quanto dilettanti, risultano capaci di esprimere un’autenticità raramente rinvenibile in un professionista, una spontaneità e un’immediatezza che si fa evidente nei lapsus, negli scherzi, negli approcci. La stessa genuinità che possiede probabilmente qualunque uomo della strada, dal momento in cui si trasforma in attore. Il detenuto infatti anche se recita “dentro”, è il frutto di un “fuori”, che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto.
L’uomo della strada e l’uomo privato della libertà che si trasformano in attori non professionisti sono però divisi da una condizione imprescindibile: la reclusione. La differenza diventa la forza e la magia del teatro in carcere, e si manifesta nel carico di “energie” che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, forzatamente compresso e coartato. Per cui è possibile servire al teatro in quanto portatori di una umanità modificata dalla restrizione, che ricerca ed esalta le differenze, esprimendo, attraverso il lavoro una potenza drammatica maggiore.
Recitare un testo teatrale offre un doppio sostegno a chi è in una cella a scontare la propria pena, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e spinge alla cooperazione, alla solidarietà, allo scambio con gli altri. La memoria e il dialogo sono tra i pochi mezzi efficaci per resistere alla quotidiana e progressiva corrosione di sé. Qualsiasi rappresentazione teatrale migliora gli uomini e la dimensione in cui vivono, operando con modalità opposte dove è contenuta, collettive anziché individualizzanti, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico, anziché di coazione a ripetere.
Fare teatro può significare che l’uomo della pena riscatti temporaneamente il suo “involontario” isolamento, smettendo di mimetizzarsi, iniziando a narrare, a narrarsi. Ma forse è anche il caso di chiederci oltre a quale significato dare al teatro in carcere, se l’impossibilità a ristrutturare le fondamenta di questa istituzione, è confermata attraverso l’impegno teatrale o le buone intenzioni di qualche operatore o di un paio di direttori.
Alla domanda iniziale mi viene da rispondere che fare teatro in carcere consente di vedere la differenza tra significato e funzione, affinché non sia visto in termini di efficienza, di servizio utile in quanto terapeutico, pedagogico, ricreativo…ma tale in quanto terapia, pedagogia, ricreazione sono in sé valori del teatro. Per buon ultimo, fare teatro in carcere non vuol dire creare false illusioni, l’uso di fantasticherie e sogni per evadere in altri spazi e in altri tempi, o in altri corpi, come può farci rammentare il falso benessere suscitato dalle droghe, tutte. Come qualcuno ci ha lasciato detto «fare teatro in carcere riesce ad avere senso soltanto quando il teatro stesso se ne avvantaggia: non quando resta prigioniero».
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