Far male critica: un esempio
L’esempio di un pessimo modo di far critica. Si tratta della recensione di Franco Cordelli al romanzo 1Q84 di Haruki Murakami, pubblicata nel dicembre scorso su La Lettura del Corriere della Sera e reperibile sul sito web Il club de La Lettura – sul quale l’ho letta – col titolo «L’amore immaginario di Murakami/1» (ne indico in calce il link). Errori di concetto fanno pensare che Cordelli abbia letto di fretta il romanzo (nel migliore dei casi), senza poi verificare quel che ha scritto. Per esempio, Aomame, la protagonista femminile del romanzo di Murakami, non è una «vendicatrice solitaria», come deve aver creduto Cordelli, ma la sicaria d’una facoltosa mandante, né la «sua missione è uccidere gli stupratori di bambine»: quella è semmai l’ultima missione della parte del romanzo pubblicata da Einaudi (il terzo e conclusivo libro è inedito in Italia).
Aomame è l’esecutrice materiale dell’assassinio di alcuni uomini che compiono sistematiche violenze domestiche nei confronti delle donne, soprattutto delle mogli: nei casi estremi in cui la mandante, anch’essa donna, non abbia trovato vie giudiziarie o d’altro genere per far cessare le violenze, essa commissiona ad Aomame i delitti. Non rivelo al lettore perché la protagonista sia diventata un’assassina seriale: Murakami lo spiega a più riprese.
Inoltre non mi risulta vi sia alcuna descrizione nella quale, come pretenderebbe Cordelli, le creature fantastiche chiamate Little People (che a Cordelli fan venire in mente i gremlin) escano dalla bocca della bambina: tali creature dicono solo che usciranno dalla bocca di una «daughter», ossia dalla «crisalide» di una bambina; inoltre, non son loro a dirlo direttamente nella narrazione: è una scrittrice a riferirlo, per cui non è dato stabilire se il racconto nel racconto riferisca il vero o il falso. Di fatto, i Little People escono dalla bocca della capra morta (e non «della bambina», come interpreta erroneamente Cordelli, che di fatto sarebbe, come ho detto, una «crisalide», una copia soprannaturale). I Little People non sono «cinque», come ancora afferma Cordelli, ma prima sei e poi sempre sette, secondo il desiderio della bimba. Perché così avvenga non è spiegato nei primi due libri pubblicati da Einaudi. Questi sono errori di lettura, non di una raffinata esegesi.
Cordelli si chiede poi se la «struttura (o meglio l’architettura, la dispositio) binaria» non sia «facile e meccanica». La domanda è retorica, come si comprende da quelle che seguono. Il fatto che ciascun capitolo segua alternativamente la vicenda dei protagonisti Aomame e Tengo in modo preciso (a questo si riferisce Cordelli) non è un’«architettura», nel momento in cui la linearità alternata della narrazione parallela non implica in sé alcuna forma strutturale di un romanzo nel suo complesso, laddove altre caratteristiche della struttura romanzesca non rafforzino l’opposizione duale: si tratta, in sé, solo di un espediente narrativo, che potrebbe addirittura venir impiegato nella forma polifonica (e quindi fortemente dialogica) di cui ha scritto Michail Bachtin.
Che lo «schema seriale» sia «troppo sfruttata (sic)» non mi sembra costituisca una giusta considerazione per evidenziare i meriti o demeriti di un romanzo. In nessun approccio critico rigoroso verrebbe da imputare in sé a Doppio sogno di Schnitzler e a Zuckerman scatenato di Roth di interessarsi solo alle vicende di un personaggio di capitolo in capitolo, o a I fiori blu di Queneau e a L’anno del Diluvio di Atwood di alternare le vicende dell’uno e dell’altro protagonista. Così come non verrebbe da dire che sia troppo in sé sfruttato l’espediente di narrare una storia in media res. La domanda che ci si dovrebbe porre è: «Il procedere delle due storie in parallelo nello stesso contesto temporale è adeguata, molto adeguata, poco adeguata o insignificante nel romanzo nel suo complesso?»
Di questo approccio difettoso di Cordelli rispetto a 1Q84 risente la sua ricerca di somiglianze extratestuali («Sylvie e Bruno di Carroll», «un po’ Kill Bill», Frank Costello faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville) a fronte d’una carenza di parallelismi intertestuali, in un romanzo che di citazioni e menzioni letterarie ne ha a iosa. Non si capisce infatti, leggendo la recensione di Cordelli, che 1Q84 è un romanzo dedicato ai meccanismi narrativi e al rapporto tra esperienza, scrittura e riscrittura: tre dei personaggi principali sono narratori (ed in certo senso lo sarebbe anche Aomame, ma non mi soffermo su questa sottigliezza); a tema è la narrativa con ampie citazioni da Anton Èechov; continui riferimenti a trame si alternano ad ampie riflessioni su quel che è finzione narrativa e vita vissuta; la struttura di 1Q84 è tesa a sciogliere il significato delle trame costruite attraverso l’aggiunta di nuovi elementi che a sorpresa ribaltano il giudizio dei personaggi e costringono il lettore ad aggiornarsi su quanto è accaduto.
Il modello è semmai Il castello di Kafka e non quelli menzionati da Cordelli, se non fosse che Murakami, a differenza di Kafka, mette allo scoperto l’ossatura di cui son fatti gli espedienti romanzeschi. Tolti questi elementi e inserita una serie di errori rispetto a quel che ha effettivamente scritto il romanziere giapponese, i Little People faranno venire più facilmente in mente i gremlin che non i sette nani o i sette formicoli sette. Ma Murakami non ha scritto – nei primi due libri (e non «romanzi», altro lapsus della recensione) cui si riferisce Cordelli – di gremlin, nani o formicoli. E poi cos’hanno di male i «romanzi americani degli anni ottanta»? Ne hanno scritti di stupendi Norman Mailer, Philip Roth, John Updike, Marilynne Robinson, Toni Morrison. A leggere la recensione, sembrerebbe che il romanzo americano degli anni Ottanta sia stato in crisi. Non ci sono un po’ troppe gaffe per una recensione così breve? E dove è finito il romanzo di Murakami? Di cosa parla, perché, in che modo, cosa è rilevante, ed, eventualmente, quali sono i suoi veri limiti? Non è forse questo il compito dell’arte critica?
Franco Cordelli, «L’amore immaginario di Murakami/1»: http://bit.ly/vneGZk
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