Facebook e le foto che riconosco
Il Caso, e forse un minimo di notorietà acquisita negli anni passati, mi hanno portato ad avere moltissimi “amici” su Facebook, e scrivo la parola amici tra virgolette perché per me essa resta ancora una parola pesante, densa di troppo significato e di troppo valore per essere spesa in modo così incauto. Ma comunque, così ci si definisce su Facebook quando ci si scambia l’accesso alle proprie pagine, e quindi diciamo pure che io mi avvalgo dell’amicizia di quasi cinquemila persone. Come è avvenuto? È avvenuto perché, per mia scelta ho deciso di fare della mia pagina un luogo aperto di incontro e di confronto di idee, con l’unico limite della decenza, del dialogo corretto e dell’esclusione del turpiloquio. Mi sono quindi arrivate negli anni migliaia di richieste di amicizia, che io ho puntualmente concesso, senza preclusioni e cernite preventive. Ovviamente di tutte queste persone ne conoscerò direttamente solo qualche decina, ma con molte si è creata col tempo una conoscenza a distanza, che è poi diventata una consuetudine piacevole, nel suo ripetersi quasi quotidiano, nel riconoscersi nei commenti e nei toni usati e nello scoprire sintonie di pensiero e di emozioni. Ma di molti altri non so nulla, non ho mai potuto mettere a fuoco quei visi, quelle icone, quei profili che scorrono davanti ai miei occhi nella lista “amici” nel riquadro a fianco della mia pagina. E allora voglio confessare un piccolo vezzo, un veniale peccato di intrusione. Ogni tanto, specialmente nelle notti insonni, amo vagare tra i volti dei mille e mille amici che compaiono, come dalla lampada di Aladino, sfiorando un tasto sul mio schermo, nella lunga lista di fototessere che racchiudono vite spesso a me sconosciute. E un viso, uno sguardo, una frase, mi spingono a frugare tra gli album di foto che accompagnano quei volti. Album spesso generosi di sogni, di tramonti, di pupazzi, di piccoli cuccioli di cani, gattini. Quanta fantasia si espande in quelle raccolte di immagini, seguendo fili di personalità diverse, a volte nutrite di elfi e di fate, a volte di passioni e furori di ribellione, inni alla rivolta allo sberleffo, a volte assetati di emozioni amorose e passionali. Ma ritrovo anche gocce di vissuto, di ricordi, di attimi di gioia. Entrare in quegli album è spesso come avere una chiave segreta per aprire storie vissute, felici spesso, ma a volte evidentemente angosciate e solitarie, fatte di desideri inespressi e velati. Ma le foto che amo di più sono quelle spesso leggermente virate in seppia, foto degli anni 60-70, che ritraggono volti giovani, semplici, incorniciati in lunghi capelli, folti riccioli, spesso trattenuti da foulard colorati, con jeans scampanati, camicie a fiori e giacconi di pelliccia, e chitarre e flauti, visi con gli occhi ardenti di futuro e sorrisi spalancati con stupore sulla voglia di esistere. Sono le foto in cui ritrovo noi tutti che allora vivemmo un tempo che pareva eterno, fecondato dalla speranza e furente per l’attesa. Un tempo in cui su quei visi di noi ragazzi si dipingeva lo stupore dello “stare vivendo il futuro”. Visi che raccontavano la voglia di essere insieme, e insieme con semplicità cambiare il mondo, senza bisogno di altro che di farlo insieme. Ecco in quelle foto mi ritrovo e mi rispecchio. E saluto con gioia quei visi amici e fratelli, con cui vorrei ritrovare la voglia di essere assieme, non più tra le icone di una pagina di Facebook, ma di essere di nuovo davvero amici, senza virgolette.
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